In Miti d’oggi Roland Barthes offre un’acuta definizione del mito: “il mito è una parola (…) un sistema di comunicazione, è un messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, o un’idea; bensì un modo di significare, una forma. (…) Il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo proferisce”.
Partendo da questa riflessione è facile dedurre che il cinema sia uno dei mezzi più propensi a costruire miti. Il collocamento dello schermo rispetto alla posizione dello spettatore, la dimensione dell’immagine, la sua manifestazione davanti a un pubblico e il rapimento emotivo e cognitivo che provoca sono elementi favorevoli alla formazione di un immaginario veicolo di messaggi resi epici proprio dall’esperienza collettiva di ricezione.
Più di altre cinematografie, quella americana ha sempre sfruttato questo potenziale per generare una vera e propria mitologia nazionalpopolare, espressione di quei valori e ideali in cui la maggioranza del Paese crede e che professa come propri, soprattutto in periodi socio-politicamente incerti come la Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale, la guerra fredda, il post-11 Settembre. È soprattutto in tali occasioni che l’America ribadisce a se stessa i diritti e i doveri del vivere il sogno a stelle e strisce, in una parola appunto il suo stesso mito.
In questo tipo di narrazione i protagonisti diventano eroi e i loro interpreti modelli di un esemplare essere statunitensi che ha condizionato negli anni mode e costumi non solo occidentali. James Stewart, Gary Cooper, John Wayne, Arnold Schwarzenegger o Sylvester Stallone sono prima di tutto emblemi ed espressione degli Stati Uniti, utopiche epifanie di un concetto stesso di identità collettiva ampio ma definito, tanto da farci rientrare chiunque si senta parte di quell’idea.
Se col passare del tempo, il mito si evolve prendendo atto di un inesorabile invecchiamento che si trasferisce in una nuova contestualizzazione del discorso di cui si fa veicolo (gli ultimi Rambo, Rocky e I mercenari di Stallone o Top Gun: Maverick di Kosiski), è evidente che la decostruzione del mito può avvenire solo da chi quel modello non lo riconosce come proprio. Un rifiuto che ne mette in luce limiti e contraddizioni, proponendo una lettura più distaccata di una mitologia chiaramente non condivisa.
È il caso questo di molto cinema afroamericano contemporaneo, così fortemente critico verso il mito statunitense osservato da sempre dal punto di vista di chi da quel sogno è tendenzialmente escluso, limitato com’è da un sistema sociale, politico e culturale che ha fatto dell’essere bianco il sinonimo di americano. Ecco allora che la rilettura dei generi cinematografici hollywoodiani e dei rispettivi impianti narrativi attuata ad esempio da Jordan Peele o Ryan Coogler, non è da leggersi solo come una trovata che tenti di rilanciare un’industria solida ma non più florida, che più che innovare tende a sfruttare format di successo finché redditizi, bensì come vero e proprio atto intellettuale. Un rinnovamento dell’idea stessa dell’America che tenga conto di una realtà ben più complessa e articolata con cui ora è inevitabile fare i conti.
In quest’ottica, la trilogia di Creed ideata da Coogler nel 2015 diventa più che un’astuta operazione di marketing per sfruttare l’ormai appannata fascinazione del “marchio” Rocky (giunta al limite della credibilità dopo l’ennesimo trionfale incontro con il ben più giovane e agile Mason “The Line” Dixon in Rocky Balboa), facendosi vero e proprio smantellamento del mito del suo protagonista. Una rivisitazione che, pur rispettosa del personaggio, porta il discorso su altri territori nuovi e distanti dalle dinamiche originali.
Nata come spin-off incentrata sul figlio dell’amico-rivale Apollo Creed – morto e vendicato sul ring di Rocky IV contro il pugile-macchina russo Ivan Drago (la minaccia comunista si concretizza nell’efferata violenza dell’algido atleta, la cui sconfitta a Mosca da parte di Rocky si carica di una valenza ideologica ancora oggi di grande suggestione) – la trilogia si smarca da subito dallo storico pugile italoamericano. Sin dal primo capitolo, la saga un po’ bonaria di riscatto, cadute e trionfi del boxer cede il passo alla tragedia di vendetta ed espiazione del giovane Adonis Creed in nome del padre defunto. Uscito dal riformatorio, il ragazzo chiede a Rocky di allenarlo, convogliando nella boxe la rabbia e il desiderio di rivalsa che riscatti il nome e la memoria del genitore.
È proprio il rapporto tra i due che rinnova la narrazione. Il personaggio di Stallone è mostrato ormai vecchio, disilluso, pavido e fragile davanti alla malattia devastante. Se Adonis avesse semplicemente avviato una propria carriera da professionista, nulla sarebbe cambiato, ma facendo leva invece sulla responsabilità e il senso di colpa di Rocky per non aver interrotto l’incontro che causò la morte di Apollo, il film gioca su altri piani. È l’obbligo morale nei confronti del collega che viene drasticamente a innovare la dinamica del buddy movie interrazziale a sfondo sportivo (dove il nero istruisce il bianco che finisce per trionfare proprio grazie agli insegnamenti della sua controparte, come nella parabola amicale tra Apollo e Rocky).
Balboa si mette a completo servizio di Adonis per scelta e non per profitto, dando al ragazzo il meglio di quanto ha imparato vedendosi però regolarmente superato, surclassato (lo sketch della gallina ripreso e rivisto in Nato per combattere). Si comincia così a rileggere il suo mito, mettendo in evidenza una chiara vetustà di cui non è possibile non prendere atto, neppure per lui.
Pur mantenendone l’aura dello storico protagonista, la trilogia di Creed estromette gradualmente Rocky, figura ormai superata nel tempo e nell’immaginario sostituita da un’altra affine pur se diversa. La prestanza fisica di Michael B. Jordan è pari se non superiore all’ipertrofica muscolatura di Stallone in Rocky III e IV e come lì è attraverso il graduale sviluppo fisico che viene a costruirsi l’epicità dell’eroe. L’impianto del racconto è il medesimo: una condizione iniziale di marginalità e apparente inferiorità rispetto all’avversario, i graduali progressi dati dagli snervanti allenamenti, l’incontro decisivo e il trionfo. A cambiare è la condizione interiore del personaggio centrale.
Se Rocky era tutto incentrato sul presente e proiettato al futuro (espressione di quell’ottimista pragmatismo che è proprio dello spirito americano), Adonis è invece interamente rivolto al passato, un tormento crescente con cui regolarmente si trova a fare i conti dentro e fuori di sé, soprattutto nell’emblematico Creed II (Steven Caple Jr., 2018). Incentrato sull’incontro decisivo contro il figlio di Drago anche lui pugile di successo determinato a riscattare il nome del padre dopo la bruciante sconfitta in patria, è questo l’ultimo atto di Balboa, attanagliato dal senso di colpa e da un fallimento familiare quasi irrecuperabile a evidenziare il lato oscuro del mito, il prezzo da pagare per raggiungere la consacrazione. Dopo aver insegnato tutto il possibile ad Adonis, Rocky passa il testimone al ragazzo, lasciandolo al suo presente glorioso e responsabile.
Non sorprende allora che nell’ultimo Creed III (esordio alla regia dello stesso Jordan), l’italoamericano sia totalmente assente. Sono note le diatribe produttive legate all’assenza di Stallone, ma sul piano puramente narrativo questo scarto viene a caricarsi di significati ulteriori. Se nel precedente Adonis si confrontava con l’eredità di un’immagine paterna da difendere e riscattare, in questo capitolo si trova a fare definitivamente i conti con un irrisolto passato personale messo forzatamente a tacere che torna incarnato nel violento e maligno amico di adolescenza Damian, uscito di carcere e intenzionato a riprendersi il successo mancato di cui Adonis è visto come causa primaria.
Lo scontro tra i due diventa quindi prima di tutto interiore, contro i rispettivi fantasmi di un pregresso ormai inevitabilmente compiuto. Si ripresenta quindi l’oppressione del passato che si fa tema sì universale ma ora squisitamente afroamericano, un insieme di esperienze singolari che vengono nel bene e nel male a condizionare il proprio essere uomo.
Il mito svela così il lato fittizio di sé, il suo essere apparentemente positivo ma in realtà solo una costruzione ideale, un’immagine ammaliante che nasconde quello che non deve essere visto. Per questo Adonis, salito nuovamente sul ring per fronteggiare il rivale e ciò che egli rappresenta, torna poi in seno alla famiglia. Finalmente liberato dalle sue oppressioni l’eroe ha compiuto la propria missione, abbassa le armi e torna a essere un semplice uomo.
È questo l’ultimo atto di un percorso narrativo che responsabilmente, decostruito il modello esemplare di integerrimo eroe americano, ne propone una versione più fragile e tormentata ma comunque vincente che ora, uscendo di scena, porta con sé i valori e gli ideali di un tempo che cede il passo ad altro a venire.