“Diane ha le spalle”, ovvero: Diane è all’altezza della situazione, puoi far affidamento su di lei. È la traduzione italiana di Diane a les épaules, titolo del primo lungometraggio del regista francese Fabien Gorgeat. Ed è proprio vero, la protagonista di questo scanzonato dramedy, a dispetto delle apparenze, è una donna che imparerà ad essere una figura di riferimento non tanto per se stessa, che già lo è, ma, paradossalmente, per il figlio che non saprà mai di essere stato nel suo ventre. Incontriamo Diane (Clotilde Hesme) nella prima sequenza in discoteca e impariamo subito a conoscerla nelle sue meravigliose contraddizioni. È una donna contemporanea, aperta al diverso, priva di pregiudizi, indipendente e forte ma senza radici, incostante. Il rapporto più duraturo che abbia mai avuto è durato sei mesi, in prima elementare. Soggiorna nel grande terratetto ereditato dai nonni, che ristruttura ma dove non intende abitare. Svolge lavori saltuari e non sogna una famiglia. Eppure, Diane è incinta.  Ma il figlio non è suo, è per una coppia di amici gay che desiderano averne uno. Distaccata emotivamente dal bambino che porta in grembo, compirà una parabola ascendente, verso la maturazione, lunga 9 mesi, un parto prematuro e una storia d’amore che le farà capire l’importanza dei legami, sino a mettere in dubbio, anche se solo per un istante, la separazione dal figlio.

Voluto fortemente all’interno del festival Gender Bender per il delicato tema che incarna, la maternità surrogata, e per come lo rappresenta, con semplicità, leggerezza, senza mai scadere nella superficialità, Diane a les épaules riflette pienamente la volontà del regista di approcciarsi a concetti delicati con ironia, per riscattarli dall’immaginario drammatico, quasi apocalittico, che li permea nelle rappresentazioni cinematografiche e televisive. A propositivo di serialità televisiva, se viene in mente il più recente approccio alla questione, rappresentato da The Handmaid’s Tale, racconto distopico ambientato in un futuro recente di un paese americano afflitto da un’infertilità dilagante, in cui le poche donne fertili sono sfruttate come incubatrici viventi per mettere al mondo, in serie, figli che verranno portati via loro dalle caste che governano il paese, ecco, il film di Fabien Gorgeart non potrebbe mai essere più lontano da tale visione apocalittica. Inoltre non vi è traccia di denuncia sociale o politica. Pur nella sua intensità, è un racconto di vita come un altro, che non vuole muovere a facili sentimenti ma che, con tocco leggero, porta a riflettere su un tema oggi molto controverso, sulla definizione incerta e sfumata di genitorialità, sull’essere genitori pur senza aver concepito e rimanere madri pur non crescendo i propri figli.

Clotilde Hesme, bellissima ed esilarante, è una formidabile interprete e non è difficile intuire che il regista abbia fatto della fisicità e delle abilità comiche dell’attrice il punto di forza del film, costruendo un personaggio complesso, contraddistinto da una forte spinta morale ma anche preda degli istinti animaleschi. Tuttavia l’impressione è che, nel tentativo di mantenersi in equilibrio tra serio e faceto, Gorgeat abbia ecceduto con la caratterizzazione dei personaggi che gravitano attorno a Diane: dall’uomo rigorosamente etero - e a tratti omofobo – alla coppia omosessuale, di cui uno petulante e nevrotico e l’altro bontempone e pacato, si delinea un quadro di soggetti macchiettistici, incastrati negli stessi cliché dai quali il cineasta vorrebbe tenere le distanze. Nonostante questo neo, la bravura degli attori (su tutti Fabrizio Rongione, attore prediletto dei fratelli Dardenne) e l’immediatezza del linguaggio comico - ricco di botta e risposta serrati e gag in perfetto stile slapstick comedy - che si alterna a momenti introspettivi e intimisti, di poche parole meditate ed efficaci, convincono e commuovono, strappando più di una risata, talvolta amara ma, per questo, tutt’altro che superficiale.