Tornare in sala per osservare come venivano realizzati i film negli anni ’60 sembra pura cinefilia nostalgica, che riconferma l’accresciuto interesse per i classici restaurati al cinema. Ma facciamo un passo indietro e ricordiamoci che se questi film sono preservati e riproposti è soprattutto perché continuano ad allargare il nostro orizzonte su cosa sia il cinema e da quanti sguardi è stato plasmato. 

Effetto notte è un’opera di estrema vitalità, e probabilmente Truffaut realizzerebbe questo film anche oggi, in un cinema pervaso dalle tecnologie digitali e immerso in un mercato globalizzato. Questo perché il film è una dichiarazione d’amore per la settima arte oltre ogni ostacolo e narra di una passione che non si arresta mai, neanche mentre si dorme. Sarebbe una magia vedere lo stesso trasporto e sincerità con cui il regista ci ha immerso nel cinema del suo tempo in un film che parli dell’industria di oggi.

È un film che ancora ci insegna l’ingegno e la creatività al servizio del cinema, rivelando numerose soluzioni, come la candela con la lampadina al suo interno, oppure escamotage truffaldini, come la creazione del burro di malga improvvisata dal produttore per compiacere la prima attrice, o ancora le difficoltà tecniche, che vanno dalla perdita dei negativi fino alla morte di un attore a pochi giorni dalla fine delle riprese, e come vi si può porre rimedio.

L’esposizione degli artifici del cinema rivela la ricchezza del panorama umano, tant’è che l’altro grande tema in Effetto Notte (e nella filmografia di Truffaut) sono proprio le relazioni, dipinte nelle proprie variazioni e sfumature, enfatizzandone la peculiarità e al tempo stesso restituendole al quotidiano. Veniamo trasportati in un’epoca in cui l’esperienza di fare un film coincideva con la vita dei suoi autori e artisti, era come una missione (“potrei lasciare un uomo per un film, ma mai un film per un uomo”).

Truffaut ha trasferito sulla pellicola un dialogo con sé stesso, con il proprio turbamento di regista, le proprie ambizioni creative, il confronto necessario e spesso straziante con i grandi autori che lo hanno preceduto e a cui vorrebbe potersi equiparare, sebbene costretto a fare anche film più modesti, come appunto Vi presento Pamela. Truffaut cita i suoi maestri e amici in maniera palese, attraverso la celebre scena del furto delle fotografie e l’altrettanto poetica inquadratura dei libri sfogliati sul tavolo della produzione, dove compaiono a grandi caratteri i nomi di Dreyer, Hitchcock, Bergman, Godard, Rossellini, accompagnati solo dalla melodia diegetica che esce da una cornetta del telefono.

Una dichiarazione d’amore e un confronto diretto che si vede poco nel cinema contemporaneo, dove i riferimenti sono introdotti per il soddisfacimento di un prurito interiore dell’autore, che spera di essere riconosciuto come seguace dei suoi autori di riferimento. Questa spontaneità è un elemento chiave nel cinema della Nouvelle Vague, e nei film traspare la convivenza tra una profonda, travalicante riflessione teorica e la ricerca di estrema sincerità nella messa in scena, attraverso l’improvvisazione, i tagli bruschi, la sospensione dalla narrazione e i numerosi altri elementi che sono stati a lungo analizzati e studiati.

Truffaut fa una summa anche di questo rapporto, mettendo in scena quella capacità di trovare soluzioni tutt’intorno a sé, tra un dialogo interiore e l’adozione di imprevedibili oggetti di scena, nella complicità della troupe. Il risultato è che alla magia del cinema subentra l’umanità, ed è proprio il materiale umano a rendere il cinema un’esperienza unica, rara e prodigiosa.