Die Sonnhofbäuerin (Wilfried Fraß e Karl Kurzmayer, 1948) è uno dei film più rappresentativi dell’Austria del secondo dopoguerra. È anche un esempio emblematico di Heimatfilm, genere caratteristico dell’area linguistica tedesca, risalente agli anni Dieci del Novecento ma protagonista di una nuova fortuna dopo il secondo conflitto mondiale. Per comprendere al meglio Die Sonnhofbäuerin è fondamentale conoscere le caratteristiche centrali dell’Heimatfilm, elementi che ne hanno fatto la fortuna e al contempo la sfortuna, motivando molte delle critiche provenienti sia dalla critica sia dal pubblico.

L’Heimatfilm, infatti, si sviluppa come risposta al trauma collettivo della Seconda guerra mondiale. L’esperienza bellica ha avuto effetti sulle principali cinematografie del mondo: in molti casi, come nel Neorealismo, la guerra è stata protagonista delle narrazioni ed è diventata sia un modo per rielaborare quel drammatico periodo sia per riabilitare il mezzo cinematografico, complice suo malgrado di quanto avvenuto sotto il fascismo. L’Heimatfilm, anche quando prende in considerazione la guerra, predilige invece un racconto che si concentra su altro, su personaggi che conducono una vita semplice, umile, un richiamo ai valori che la guerra sembrava aver spazzato via.

Considerati reazionari e stupidi, molti film di questo genere hanno avuto poca circolazione al di fuori dell’area tedesca. Tuttavia, già guardando Die Sonnhofbäuerin è possibile scorgere elementi che parlano all’Europa nella sua totalità. La storia ha per protagonista Mena, una contadina sui monti del Tirolo, la quale attende insieme al figlio il ritorno del marito Stefan, partito per la guerra anni prima. Quando quest’ultimo torna, scopre che nella vita di Mena c’è adesso un altro uomo.

Ciò che colpisce da subito è la leggerezza e il tono disteso con cui i due registi raccontano una storia che altrove sarebbe stata trattata diversamente. L’Heimatfilm supera il trauma della guerra utilizzando un registro spesso e volentieri comico e solare: questo registro pervade Die Sonnhofbäuerin già nei primi fotogrammi, con le panoramiche sul paesaggio tirolese e le inquadrature dei contadini che lavorano sui versanti delle montagne, il ritorno a una vita a contatto con la terra, dove lo spettro della guerra appare il più lontano possibile. Emerge già in questi primi minuti un approccio alla regia fortemente influenzato dal cinema documentario: Die Sonnhofbäuerin è ricco di momenti contemplativi, dove i personaggi vengono inquadrati nella propria quotidianità, approccio che però non rifugge anche alcune ispirate incursioni oniriche.

Lo spettro della guerra irrompe nel film solo nella seconda metà, quando il marito della protagonista torna a casa, gettando le certezze della donna nel caos. Anche qui, però, il tema del ritorno dei soldati dal conflitto, argomento estremamente caldo nell’Austria del 1948, è raccontato con insolita leggerezza. La scoperta da parte di Stefan della nuova relazione di Mena è messa in scena con una serie di siparietti comici che coinvolgono anche il coro di personaggi secondari che abitano il villaggio tirolese. E in mezzo a questo flusso di eventi, emergono tematiche che risuonano ancora oggi, come ad esempio il desiderio femminile e la condizione delle donne in tempo di guerra.

Un finale più conservatore di quanto ci si aspetterebbe, infine, contribuisce a dare a Die Sonnhofbäuerin l’aspetto di un idillio che osserva da molto lontano il disastro della guerra, ma che in realtà racconta un paese ancora traumatizzato, che fatica a ritrovare il proprio posto nel nuovo mondo. Se infatti in superficie risalta soprattutto il tono ottimista e colorato, a un livello ulteriore appare evidente che l’Heimatfilm cerca di dare delle coordinate nuove a un pubblico ancora disorientato da quanto accaduto. Die Sonnhofbäuerin, come gli altri film del genere, racconta, in poche parole, un momento di transizione, un paese infelice e instabile, che guarda ai valori del passato per proiettarsi nel futuro.