Per gli appassionati di tennis inglesi e americani è “The French Open”: parliamo del Roland Garros, l'Open di Francia appunto, il più importante torneo su terra rossa. Da grande fan dello sport, il fotografo e regista William Klein decide di realizzare un documentario sull'edizione del 1981. È l'epoca della grande rivalità fra Björn Borg e John McEnroe, ma già si affacciano le nuove leve Ivan Lendl e Yannick Noah, mentre Jimmy Connors è ancora ben saldo in campo. Fra le donne, sono Chris Evert e Martina Navrátilová a dominare la scena.

Klein inizialmente si limita a osservare e descrivere in maniera neutra il fenomeno sociale Roland Garros, dentro gli spogliatoi e fuori, sul campo e ai bordi. Nessuna voce narrante, nessuna spiegazione se non quelle che intercorrono fra allenatori e giocatori, nessun giudizio se non quelli captati in loco nel côté di giornalisti e addetti ai lavori che commentano le partite. Più che vere e proprie interviste, estemporanee confidenze o esclamazioni raccolte qua e là dalla camera a mano.

Ciò che sorprende, del metodo Klein, è il livello di familiarità coi giocatori raggiunto dal regista dietro le quinte, e il grado di accesso garantitogli dall'organizzazione del torneo, da allora mai più ripetuto e del tutto impensabile al giorno d'oggi (con Lendl che solo a fatica riesce a scacciare il documentarista dalla stanza, prima di denudarsi per un massaggio).

Proprio questa ricerca di intimità finisce per forzare l'equidistanza che il documentario vorrebbe negli intenti mantenere, non distinguendo fra giocatori più o meno importanti, quando si ritrova a dare arbitrariamente maggior rilievo a coloro che concedono di più di sé alla macchina da presa, come Virginia Ruzici e Yannick Noah. Poi c'è McEnroe: mai ritratto fuori dal campo, evidentemente inavvicinabile, definisce completamente il suo personaggio in un unico fulminante episodio en plein air, mentre tratta i giudici che non vogliono sospendere la partita per pioggia come impostori passibili di denuncia per lesioni personali.

Dopo la parte iniziale quasi à la Wiseman, però, The French comincia a farsi prendere dal gioco e cambia pelle: se per le prime fasi del torneo gli incontri venivano risolti con brevi sequenze, o la mera declamazione del risultato finale dall'altoparlante in campo, con maggiore spazio dato al folklore dei pubblico sugli spalti – forse il tratto nel quale è più riconoscibile il Klein fotografo, in grado di inserire l'ironia anche nelle seriosissime immagini di moda – ora si fa sul serio.

Non solo il focus si sposta sulle azioni in campo, celebrando le più belle, ma la macchina da presa le segue con lo stesso pathos degli spettatori che vogliono sapere chi vincerà la partita. E se la finale femminile viene ritratta con una certa svagatezza – tutto il film è pesantemente sbilanciato sul versante maschile della gara, anche in accordo con gli entusiasmi popolari dell'epoca – il trionfo ultimo di Borg si giova di un'imprevista enfasi retorica con tanto di commento musicale off, espediente mai utilizzato prima se non a rimarcare la suddivisione nelle giornate di gioco. C'è poco da fare, anche i documentaristi più rigorosi hanno un cuore.