“Noi siamo amorali, non immorali”, ripete Riccardo Schicchi in Diva Futura. I film hard, per Schicchi – regista, imprenditore e pioniere del genere in Italia –, erano un’arte a cui dovevano necessariamente corrispondere una grammatica, una visione, un amore: non si poteva cedere ai ricatti di un Paese benpensante, o scendere a troppi compromessi che limitassero la creatività o umiliassero le attrici.
Diva Futura, opera seconda della regista Giulia Louise Steigerwalt, racconta ascesa e caduta dell’omonima agenzia pornografica fondata proprio da Schicchi (Pietro Castellitto) negli anni Ottanta. Il film si dipana lungo un arco di più di trent’anni, spaziando dall’incontro con Ilona Staller (nota come Cicciolina, interpretata da Lidija Kordic) fino alle ultime fasi della vita dell’imprenditore, morto nel 2012 per complicazioni dovute al diabete. La narrazione è corale, ma il film si ispira al libro di Debora Attanasio “Non dite alla mamma che faccio la segretaria”; Attanasio fu la segretaria di Schicchi per più di nove anni, e in Diva Futura è interpretata da una timidissima Barbara Ronchi.
All’intreccio di voci diverse si aggiunge una narrazione non lineare, fatta di continui salti temporali dai momenti più fulgidi e comici dell’agenzia di film per adulti agli aspetti più tragici della storia che racconta. Tra tutti, il crack finanziario di Schicchi evitato solo dall’ingresso nel porno della moglie, Éva Henger (Tesa Litvan), ma anche il tumore fulminante di Moana Pozzi (Denise Capezza).
I salti temporali hanno la funzione di ricordare allo spettatore che l’inguaribile ottimismo di Schicchi, incarnato da Castellitto come un folletto entusiasta e un po’ ingenuo in un’industria ai suoi albori, è destinato alla disillusione. Le continue prolessi, tuttavia, hanno l’effetto secondario d’intorbidire l’arco narrativo dei personaggi, anticipando temi che verranno poi affrontati solo più avanti e precludendo la possibilità a chi guarda di collocare le fortune e le sfortune di Diva Futura in un contesto politico e sociale definito.
La sceneggiatura, firmata dalla stessa Steigerwalt, cerca di offrire allo spettatore spunti fugaci in tal senso. Davanti a uno Schicchi attonito per la deriva violenta dell’industria che lui stesso ha creato, per esempio, la sua segretaria gli chiede: certo, signor Schicchi, per lei la pornografia era un’arte; ma è sicuro di non avere contribuito allo sviluppo di questo nuovo mezzo per mortificare le donne? Le artiste che lavorano per la sua agenzia, sostiene l’imprenditore, restano belle e giovani per sempre; ma è sufficiente? C’è un confine tra la rottura dei tabù e lo sfruttamento del corpo femminile?
Il film circumnaviga gran parte delle domande che potrebbero sorgere, preferendo concentrarsi sul racconto di una favola tutto sommato scanzonata e dolceamara di un uomo che sognava troppo in grande per il Paese in cui viveva.
Ripensando a Supersex (la serie su Rocco Siffredi scritta da Francesca Manieri uscita a marzo su Netflix) viene da chiedersi se il 2024 sia l’anno in cui l’Italia cerca di fare pubblicamente pace con il porno – e in particolare con l’eredità di Riccardo Schicchi, che del resto scoprì anche Siffredi. Ma i contorni di questa eredità non sono chiari, proprio in virtù della quasi totale rimozione del contesto in cui nacque, esplose e si trasformò poi in qualcos’altro.
Il racconto della scoperta italiana dell’erotismo su VHS sembra insomma aderire alle intenzioni dichiarate da Schicchi: un approccio amorale e non immorale, attento a sfuggire agli stereotipi ma anche a non farsi troppe domande. E, soprattutto, a non tracciare a posteriori rapporti di causa ed effetto tra l’industria pornografica odierna e la sua genesi ottimista e sfacciata.
La favola non c’è più, ma c’è stata; tutto il resto, ci dice Diva Futura, è una storia per un’altra volta.