Ripensiamo Ammore e malavita dopo alcune settimane dalla sua uscita. Il cinema di matrice napoletana sta vivendo una stagione di enorme vivacità, e sembra dialogare in modo convinto con diversi generi (e non per la prima volta).

Ciro (Giampaolo Morelli) è un giovane ragazzo che, addestrato per essere il migliore tra i bodyguard del “Re del pesce” Don Vincenzo Strozzalone (Carlo Buccirosso), ha sepolto ogni sentimento sotto strati di diffidenza, freddezza e impassibilità. Ciro, fin da ragazzino, in coppia con Rosario (Raiz) sono i “Guaglioni ‘e Malavita” soprannominati “le tigri” che, senza discutere e ragionare troppo, prendono ordini solo dal loro Boss e da sua moglie, l’ex domestica dai gusti pacchiani, Maria (una ginnica Claudia Gerini). Quando il camorrista Don Vincenzo, dietro il consiglio della moglie, vuole fingersi morto, come in un film della saga di 007, iniziano i guai soprattutto per l’ingenua infermiera Fatima (Serena Rossi). L’infermiera, a suo discapito, casualmente assiste a qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, finendo così al centro del mirino di Don Vincenzo e della spietata Maria.

Due storie “d’ammore” si intrecciano attraverso le due donne protagoniste, profondamente diverse l’una dall’altra, pur provenendo dalla stessa estrazione sociale. Infatti, esse privilegiano strade (che si impongono più volte nel corso del film) diametralmente opposte per aiutare i loro rispettivi grandi amori e così ad auspicare di coronare il sogno d’un lieto fine da romanzo rosa, o meglio da commedia alla Bridget Jones.

La terza donna che i Manetti Bros fanno agire da figura principale, quasi “animata”, è la bella Napoli. I Manetti usano l’emarginata sceneggiata napoletana alternandola - con giochi di luce che distinguono realtà e immaginazione - alle caratteristiche più proprie di un gangster-musical, ponendo Napoli sullo sfondo di sparatorie in ralenti all’americana e momenti di puro amore e drammaticità: alternando agli scenari di zone malfamate (come le Vele di Scampia, ormai meta turistica) quelli del centro città, dei suoi luoghi culturali e del Golfo, troppo a lungo lasciati nel dimenticatoio.

I ricorrenti richiami alle commedie romantiche e ai film cult americani, sono perlopiù oggetto della rinnovata memoria popolare a cui fare riferimento, più che un omaggio, come fa la kitsch Maria sempre vestita in maniera provocante, ma umile (ad eccezione dei i suoi gioielli) poiché aggrappata e fiera del suo passato di “serva” (così si definisce). La sceneggiatura provocante sfrutta gli spazi canori, in napoletano stretto come tutto il film, per l’ulteriore sviluppo dei personaggi e per un’enfatizzazione dei sentimenti e delle emozioni che non possono trasparire in altra maniera (come vuole la tradizione del musical).

I Manetti Bros che paiono stufi della serietà, tendente all’effimero, con cui è (iper)trattato il tema - che raggiunge il culmine nei superficiali “selfie” scattati da turisti ignoranti - ribaltano la prospettiva, facendo diventare il film un’occasione di satira che non scade in un futile “happy ending”, ma è intrisa di malinconia e riflessione, omaggiando così, oltre alla città, anche quella parte del suo popolo che è costretto dalle circostanze ad emigrare, unendosi ai già emigrati.