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“Diabolik – Chi sei?” secondo lo sguardo di Eva Kant
Se l’intera trilogia costituisce un’esperienza visiva singolare e seducente per l’uso sapiente del colore e per il rigore filologico nel trasporre sullo schermo l’eleganza stilizzata delle tavole originarie, nell’ultimo capitolo i Manetti Bros abbandonano parzialmente la scelta stilistica di aderire alla fissità grafica dei fumetti che in qualche modo congelava l’azione nei due film precedenti e sviluppano la diegesi del film su più linee narrative, mischiando registri stilistici ed epoche differenti.
“Diabolik, chi sei?” e lo svago cinefilo
Se il ritmo non sempre regge, se la tensione a volte latita, se non mancano ingenuità e scivoloni, lo si perdona volentieri ai Manetti, prendendo in cambio il divertimento analogico d’antan, il gioco dei cameo, lo svago citazionista che regala questo fumettone bidimensionale e stilizzato. Ma d’altro canto il fascino di Diabolik, sempre uguale a se stesso, non è un po’ anche questo?
“Diabolik – Ginko all’attacco!” e la visione fumettistica
I fratelli Manetti dirigono in maniera ancor più fumettistica, rispetto al primo capitolo, un testo che, come in passato, è un fumetto già dall’uso del “voi” tra i personaggi. Si pensi al ralenti del gettone telefonico che viene lanciato alla ballerina nella sequenza successiva ai titoli di testa, al lancio del pugnale, agli scambi di sguardi – quello a chiusura della linea narrativa tra Valerio Mastandrea/Ginko e Altea è intriso anche di cultura pop, infatti potrebbe ricordare lo sguardo sornione e contrito di Jerry Calà nel finale di Sapore di mare di Carlo Vanzina – ai primi piani e al frequente uso di dettagli e del campo-controcampo; strutturati e composti in maniera quasi desueta rispetto alla classica costruzione del quadro cinematografico.
What a Feeling. Tornando su “Ammore e malavita”
In un genere che non fa mistero del suo essere finzione, i Manetti instaurano un cortocircuito socio-visivo che ironizza sui disagi sociali di certe zone geografiche del Sud Italia, facendo riflettere sull’impatto del successo di certi fenomeni letterari e televisivi sullo stato delle cose. Alla base di un’operazione come Ammore e malavita si può leggere una profonda fiducia nel cinema italiano e nella sua possibilità di svincolarsi dai dettami del mainstream USA per mostrare al pubblico e alla filiera cinematografica che l’industria nostrana può rappresentare ed esprimere profondamente la nostra identità non solo nei piccoli film d’autore a basso budget, ma anche quando si tratta di generi, balli e tante comparse.
Divertimento e malinconia in “Ammore e malavita”
Ripensiamo Ammore e malavita dopo alcune settimane dalla sua uscita. Il cinema di matrice napoletana sta vivendo una stagione di enorme vivacità, e sembra dialogare in modo convinto con diversi generi (e non per la prima volta). I Manetti usano la sceneggiata napoletana alternandola – con giochi di luce che distinguono realtà e immaginazione – alle caratteristiche più proprie di un gangster-musical, ponendo Napoli sullo sfondo di sparatorie all’americana e momenti di puro amore.