Quando nel 1961 Pietro Germi fece Divorzio all’italiana spiazzò tutti. Germi era una star del drammatico, veniva dal noir, dal poliziesco e dal neorealismo e nel giro di 10 anni si era guadagnato il riconoscimento di pubblico e critica, vincendo numerosi premi, a partire da quel Il cammino della speranza del 1950 presentato in concorso alla quarta edizione del Festival di Cannes e vincitore dell’Orso d’argento alla prima edizione del Festival di Berlino.
Era odiato da una certa critica di sinistra per come tratteggiò la classe operaia nel 1955 con Il ferroviere e nel 1958 con L’uomo di paglia, per aver cioè evidenziato quella trasformazione da sottoproletariato a media borghesia che questi intellettuali facevano finta di non vedere (non a caso Germi era apprezzato da Pier Paolo Pasolini, altro regista “dissidente”). I suddetti film vennero stroncati da costoro, non ne riconobbero mai il valore – e stiamo parlando di due tra le sue opere più riuscite –, ma probabilmente Germi si fece odiare ancora di più quando nel 1961 decise di darsi alla commedia all’italiana, che alcuni tra loro detestavano e che proprio con Divorzio all’italiana si sarebbe iniziato a chiamarla così.
Questa grottesca satira sociale gira attorno all’assurdità di un Paese privo di una legge sul divorzio (sarebbe arrivata solo nel 1970) ma con ancora la regolamentazione di quel delitto d’onore, molto in voga nella Sicilia di quegli anni, che dà il titolo al romanzo di Giovanni Arpino (Un delitto d’onore) a cui Germi – insieme a Ennio De Concini e Alfredo Giannetti in sceneggiatura – si è liberamente ispirato per il suo film. L’articolo 587 del codice penale di allora (abolito soltanto nel 1981) consentiva la riduzione della pena per chi uccidesse la moglie o il marito in caso di adulterio, al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”. Su questa arretratezza Germi imbastisce una commedia nera che vede l’infelice barone Ferdinando Cefalù, detto Fefè, organizzare un subdolo piano per liberarsi di quell’incubo di moglie che è Rosalia e potersi sposare con sua cugina, la bella Angela.
Laddove non c’è la possibilità di una separazione civile, l’unico divorzio possibile è una mascalzonata, un fare le cose alla maniera italiana, all’italiana. Eccola, la parola giusta. Non commedia italiana ma all’italiana. Il titolo del film di Germi era perfetto per identificare un filone umoristico tutto giocato sull’inadempienza, il fallimento e l’arte di arrangiarsi. Per dirlo con le parole di Maurizio Grande: "L’origine e l’impiego del termine sono spregiativi e proprio sulla falsariga tematica di Divorzio all’italiana stanno ad indicare un’attitudine di vita sociale negativa e una modalità ambigua del rappresentare sullo schermo quel vivere".
La svolta inaspettata di Germi alla commedia fu premiata con un successo enorme. Un Oscar, due Golden Globe, un BAFTA, tre Nastri d’argento, un Globo d’oro e il Prix de la meilleure comédie alla quindicesima edizione del Festival di Cannes. Da lì in poi iniziò una nuova fase della sua carriera, che tra il successo di Sedotta e abbandonata, Signore & signori e di un certo Amici miei ceduto a Monicelli poco prima di morire (commovente nei titoli di testa quel “un film di Pietro Germi”), lo portò ad essere ricordato oggi come uno dei maggiori esponenti del genere. Quindi probabilmente il regista più odiato in assoluto da una certa critica di sinistra.