“Qualcuno che passa per caso rivelando la sua fragilità”: questo è Grace per la cittadina abbozzata da Lars von Trier. Appartenente al filone dei film in cui uno straniero irrompe in un microcosmo, scombussolandone gli equilibri, Dogville è un esperimento audace, tutt’altro che teatrale, come in molti hanno detto. Dalla voce narrante (John Hurt), all’utilizzo evocativo del suono, alla macchina a mano, ai numerosi primi piani degli attori, il regista del Dogma 95 riporta il cinema alla sua essenza, denudandolo, asciugandolo, privandolo di tutti gli orpelli spettacolari dell’intrattenimento contemporaneo.

Grace, come l’Edward di Tim Burton, viene accolta con iniziale fascinazione e curiosità dai villici, per poi pian piano essere sfruttata, umiliata e aggredita. Non sono le villette colorate della società dei consumi americana, ma delle linee di gesso che delimitano i muri invisibili delle abitazioni di questi quindici caratteri apparentemente innocui, le cui maschere di bontà non possono che frantumarsi di fronte alla verità di cui Grace si fa portatrice.

La messa in scena di von Trier è ridotta all’osso, ma più viva che mai. La macchina da presa è al servizio degli attori, che si fanno essi stessi scenografia emotiva, riempiendo gli apparenti vuoti lasciati dall’essenzialità degli ambienti. Il campo si fa automaticamente fuoricampo, lasciando allo spettatore il compito di riempire gli spazi per completare il quadro. Una lezione di cinema che solo un grande maestro poteva proporre con tanta sfrontatezza e lucida precisione.

Insieme alla scenografia crollano quei muri che incoraggiano una cecità consolatoria, un far finta di non vedere ciò che più ci spaventa, pur di mantenere una parvenza di tranquillità, un quieto vivere artificiale che Grace, candidamente, smaschera. I muri invisibili svelano ciò che tutti sanno e che fingono di non sapere. Questo non-luogo, privo di connotazione e di una chiara identità, mette in risalto i corpi attoriali, chiamati ad incarnare la complessità e le sfaccettature dell’animo umano.

“Quando si tratta di decifrare te non vado da nessuna parte”, dice Tom (Paul Bettany) a Grace, scosso davanti al proprio desiderio. Nicole Kidman (forse nel ruolo della vita), una delle ultime dive, il cui volto filmato basta da sé per fare cinema, è perfetta per incarnare questo angelo senza casa e senza storia. Tutti sembrano beneficiare dalla novità che la nuova arrivata porta nella piccola e monotona Dogville. Persino l’ombroso Chuck (Stellan Skarsgård) viene visto sorridere dopo l’arrivo di Grace, la quale sembra risvegliare desideri sopiti in una quiete repressiva.

La verità, troppo dura e spietata da guardare in faccia, non può che essere messa al guinzaglio, legata, incatenata, negata, controllata, per non permetterle di distruggere ciò che con fatica è stato costruito. Da possibilità di salvezza, di vita, d’amore, Grace viene martirizzata e costretta a portare il peso delle colpe dell’intero paese. L’ipocrisia maggiore viene da chi predica bene per poi chiudere gli occhi; da chi si adorna di belle parole per ergersi a guida morale e spirituale; da chi, in fondo, si vergogna di essere debole e fallibile come tutti gli altri. Infine, il cane, da cui la cittadina prende il nome, è l’unica bestia che non finge di non esserlo.

Von Trier, con il suo solito sguardo spietato, cinico, e privo di ogni buonismo edulcorante, mette lo spettatore davanti ad uno specchio, spogliandolo di ogni parvenza di bontà, per ricondurlo alla violenza originaria che contraddistingue ogni essere umano. La presenza di Grace diventa un catalizzatore per mettere a nudo la natura dell’uomo, le sue contraddizioni, le sue luci e le sue ombre. Attraverso la purezza di Grace, von Trier ci mette davanti alla paura che abbiamo di essere umani.