Un uomo immerso nell’acqua, sul fondo di una piscina, con una lunga cicatrice sul torace. Pedro Almodóvar apre così Dolor y Gloria, sua ultima opera cinematografica accolta con grande favore di pubblico e critica, prima in Spagna e in questi giorni a Cannes. Salvador Mallo - un Antonio Banderas misurato, triste e sornione in una delle sue prove attoriali migliori - è un famoso regista oppresso dal passare degli anni, da dolori fisici e psicologici e soprattutto dall’incapacità di tornare a dirigere un film. L’incontro con l’amato e odiato attore di un suo vecchio film lo rimette in contatto col passato, con i ricordi di momenti della sua infanzia e della sua giovinezza, e lo spinge a regalargli una pièce teatrale autobiografica, dalla cui messa in scena riemergerà un vecchio amore, fonte di struggente malinconia ma anche di voglia di rimettersi in gioco, di ritornare a raccontare.
Ancor prima di essere dichiaratamente autobiografico e liricamente intimo, questo film del sessantanovenne regista madrileno è un film di acqua e cicatrici, di umori e di ferite più o meno rimarginate. E la dimensione del sogno e del ricordo - in cui finzione e realtà si mescolano indissolubilmente - è la forma per eccellenza della loro narrazione. All’acqua e agli umori appartengono tutti i ricordi dell’infanzia che affiorano in continui flashback. “Il cinema della mia infanzia sapeva di pipì. Di gelsomino. E di brezza d’estate” fa dire Almodóvar al suo Salvador. Dopo la scena della piscina, arriva quella delle donne che lavano i panni al fiume, cantando e raccontando storie davanti al piccolo e incantato Salvador, o quella della tinozza d’acqua in cui si lava il giovane muratore facendo nascere il primo desiderio. Quello stesso primer deseo che diventa poi il titolo del film nel film.
Alle cicatrici appartengono invece tutte le ferite che costruiscono in modo anatomico e psicologico Salvador. Gli studi in seminario, i tradimenti degli attori, la perdita del grande amore, le malattie, la morte della madre, la depressione, l’incapacità di tornare a dirigere. E il corpo umano diventa una cartina geografica i cui tracciati sono fatti di nervi, ossa e vene, strade che per conoscere bisogna percorrere fisicamente, come quei luoghi geografici di cui non si ha piena conoscenza se non dopo averli visitati.
E per raccontare questi umori e queste cicatrici Almodóvar sceglie la forma della metanarrazione, inserendo racconto nel racconto, film nel film, con una struttura non a caso a matrioska. A cominciare dal nome del protagonista, Salvador, che è quasi completamente contenuto in Almodovar, per proseguire con il monologo autobiografico messo in scena dal suo attore feticcio, passando per citazioni dirette dei suoi film precedenti (da La Legge del desiderio alla Mala Educatión) o di quelli che hanno fatto la storia del cinema (Splendore nell’erba), fino ad arrivare alla finale rottura della quarta parete per mostrare le riprese del film che stiamo vedendo.
Quasi a sottolineare che anche questo film è fatto della materia di cui è fatto il cinema: un insieme di sogni, ricordi, realtà e sovrapposizioni, come d’altra parte canta Mina nella colonna sonora sulle note di Come sinfonia. Materia che ha necessità di essere raccontata - e forse anche tradita - per sopravvivere. “Si scrive per dimenticare il contenuto di ciò che si è scritto” dice Salvador, consapevole del valore catartico della scrittura ma anche della sua vocazione a tradere, a tramandare ma anche a tradire. Nella scena in cui la vecchia madre, ormai ricoverata in ospedale, racconta di uno strano sogno popolato di fantasmi, Salvador appare rapito dalla capacità affabulatoria di questa donna poco istruita ma acuta e pragmatica, che proprio per la paura di essere travisata vieta al figlio di parlare di lei e delle sue amiche nelle sue opere.
Ci stupisce questo film, che nello stile non sembra quasi appartenere ad Almodóvar ma che è completamente fatto di lui e del suo cinema. Ci inchioda alla sedia della sala questa narrazione asciutta, sobria, matura, quasi trattenuta che si veste dei suoi soliti sgargianti colori - su tutti il verde, il rosso e l’azzurro - ma senza il sovraffollamento barocco a cui ci ha abituati. Ci incanta questo racconto che cita continuamente le pellicole passate e la sua vita presente, ma che travalica il dato biografico per diventare riflessione sul tempo che passa e in fondo anche sul cinema, sulla sua genesi e sul suo mutare.
Ma dopo averci stupiti e incantati Dolor y Gloria ci emoziona anche, soprattutto nella seconda parte, quando l’incontro con Federico, il grande amore di Salvador che riemerge dal passato, si materializza prima sulla carta, poi sul palcoscenico ed infine nella realtà filmica. Questo graduale avvicinamento con un antico fantasma, con una delle ferite più dolorose del protagonista, culmina nella bellissima scena di un bacio, che racchiude lo struggimento per un passato che non può in alcun modo tornare ma che al tempo stesso non può essere ignorato. Un bacio che è ferita e al tempo stesso cicatrice, segno che racconta.