Giusto due anni fa avevamo lasciato il Salvador di Dolor y Gloria nel suo appartamento di Madrid, a soffrire fra crisi artistica e dolori alla schiena prima di rimettersi finalmente al lavoro e tornare sul set a dirigere film. Oggi in un altro appartamento, il cui ingresso è identico a quello di Salvador e fa tutto per mostrarsene come una versione più modaiola, sempre in una città spagnola, troviamo una donna dall’aspetto sofisticato, alta, che parla inglese e fa l’attrice e, chissà, magari in passato è stata diretta proprio da lui.

L’appartamento è parte di un teatro di posa, o forse l’attrice, sul palco giorno e notte, lo immagina soltanto. Lì però ha vissuto con il compagno, che l’ha lasciata da appena tre giorni, non facendo ritorno a casa: se lo scopriamo è perché lo stralcio di un suo dialogo interiore ci informa dell’abbandono. Poco prima l’avevamo vista entrare in un negozio per acquistare un’ascia, fare rientro a casa con il suo cane e riordinare il tavolino, con i suoi dvd sparsi di Kill Bill e Il filo nascosto, adatti a tenerle compagnia o a prepararla al ruolo, ognuno a modo suo, nelle ore da poco trascorse. La nostra Sposa, priva di nome come la vendicatrice di Tarantino e la seconda moglie di Rebecca, medita prima l’omicidio, poi il suicidio, finché non riceve una telefonata dallo sposo che tale non fu, che ascoltiamo per poco meno di trenta minuti. Perché mezz’ora è la durata di The Human Voice, l’ultimo lavoro di Pedro Almodóvar tratto dall’omonima pièce di Jean Cocteau del 1930, La Voix humaine.

La sola voce umana che sentiamo è quella di lei, a sua volta l’unica a sentire quella di lui mentre ripercorre al telefono i quattro anni d’amore e felicità della loro storia. Dapprima distante e altezzosa nelle risposte quanto lo è nell’aspetto, pian piano lascia cadere la maschera e provata mette a fuoco gli errori, su tutti il troppo amore e lo snaturamento di sé. Lo ringrazia per le briciole e lo assolve per le distrazioni, ripetendo quell’errore nella speranza di ricominciare con chi, incapace di presentarsi di persona come il galateo degli amanti imporrebbe, risolve tutto con una telefonata.

Poco drammatica e molto ironica, giocata su incastri a scatole cinesi di finzione e realtà, la versione di Almodóvar dell’opera di Cocteau si allontana dall’originale con un finale nuovo, e segna uno scarto dal suo precedente cinematografico più illustre, diretto da Rossellini nel 1948 con l’interpretazione di Anna Magnani. Nell’arco che li collega a cominciare dal minutaggio, del tutto assimilabile, è soprattutto il disegno della figura femminile a fare da specchio dei tempi. Sottomessa, disperata e implorante la Magnani di Rossellini, che arriva persino a chiedere all’infame la gentilezza di non portare la nuova amante nello stesso albergo in cui erano stati insieme; post-moderna, misteriosa e reattiva la Swinton di Almodóvar, che assegna il mal d’amore femminile all’attrice più androgina di tutte, a cavallo fra i sessi da sempre.

Che sia in scena, che lo immagini o lo viva sul serio, la donna di Almodóvar sembra sapere cosa fare: nell’epoca dei rapporti fluidi e frantumati si può spingere il maniglione antipanico ed uscire dalla realtà o dalla finzione, che fra quattro mura pari sono, senza immolarsi inutilmente ad una voce che forse nemmeno ha avuto il buon cuore di farsi viva, figuriamoci umana.