Un flop che diventa cult. Alla sua uscita nelle sale americane, nell’autunno del 2001, Donnie Darko, opera prima del regista esordiente Richard Kelly, registra poche presenze e finisce presto fuori programmazione. A riassumere i motivi del suo insuccesso sono proprio le parole di Bob Berney, direttore della società che lo distribuisce, Newmarket: un film che esce a poche settimane di distanza dall’attentato delle Torri Gemelle e presenta un incidente aereo nel trailer non ne guadagna certo in popolarità, e le cose peggiorano se all’equazione si aggiungono l’atmosfera cupa e l’umorismo nero che contraddistinguono l’intera pellicola.

Ma Donnie Darko sopravvive all’insuccesso iniziale, si diffonde e mette radici nel panorama culturale delle generazioni più giovani, diventando presto un film generazionale, un capostipite del filone ribattezzato mindfuck, in cui filosofia e fantascienza si fondono per creare trame contorte, un film di cui siti e blog del neonato web 2.0 pullulano di ipotesi e spiegazioni, nonché speculazioni su tutti i possibili scenari che potrebbero diramarsi dalla sua trama visionaria.

Donnie Darko è un film in cui il rifiuto di una linearità temporale si fa manifesto programmatico del desiderio di ribaltare gli stilemi narrativi hollywoodiani e rifiutare una narrazione lineare, e, con essa, una visione condivisa e rassicurante della realtà. Lo spirito di ribellione tipicamente adolescenziale raggiunge qui le sue vette più alte, prendendo i connotati di un’imminente fine del mondo, da cui solo un adolescente disadattato può salvare l’umanità.

Ambientato a fine anni ’80 (ai tempi dell’adolescenza del regista), Donnie Darko riprende il nome del suo eponimo protagonista (interpretato da un ancora semisconosciuto Jake Gyllenhaal), un adolescente che vive con i genitori e le due sorelle (la maggiore, Elizabeth, è interpretata dalla sorella di Jake, Maggie Gyllenhaal) in un’area suburbana di Middlesex, Virginia. Donnie è in cura da una psichiatra per atteggiamenti violenti e un “progressivo distaccamento dalla realtà”, ma è proprio una visione a salvargli la vita quando il motore di un aereo precipita dal nulla e si schianta nella sua cameretta: Frank, un inquietante coniglio antropomorfo, lo invita a seguirlo e gli rivela che la fine del mondo è vicina. 28:06:42:12, è il countdown che Donnie si ritrova stampato sul braccio la mattina seguente.

Gli eventi si sviluppano nei 28 giorni successivi – gli stessi in cui, secondo gli aneddoti, è stato girato il film, in un’affascinante sovrapposizione tra tempo della storia e tempo del racconto – e chiamano in causa viaggi nel tempo e universi paralleli. Ispirato alle teorie di Stephen Hawking, la colonna portante del film è il libro di finzione La filosofia del viaggio nel tempo, che postula la teoria secondo cui è possibile che, in rarissimi casi, un universo parallelo entri in contatto con quello primario, ma la dimensione così creatasi ha un’instabilità talmente alta che la porterà al collasso nel giro di poche settimane, precipitando in un buco nero che risucchia tutto ciò che lo circonda.

Quello di Donnie è quindi un viaggio a ritroso nel tempo, a partire dal momento in cui il motore dell’aereo si abbatte sul tetto di casa sua, per rimarginare il tessuto spazio-temporale che l’incidente aereo aveva squarciato, e sventare così le conseguenze catastrofiche che causerebbe. Ma il sentiero verso la fine del mondo – o la sua salvezza – si sovrappone a quello del coming of age, lungo il quale Donnie si innamora della nuova compagna di scuola, si ribella alle ipocrisie degli insegnanti e impara a fare i conti con il pensiero della morte e della sua ineluttabilità.

 “Ogni creatura sulla faccia della Terra muore sola”, gli sussurra all’orecchio Nonna Morte, alias Roberta Sparrow, l’ultracentenaria autrice del libro sui viaggi nel tempo. Ma la certezza di un tempo lineare, che si consuma irrimediabilmente tra un punto di partenza e uno di fine, basta a definire e a spiegare il mistero dell’esistenza? Probabilmente no, e Donnie Darko rifiuta la teoria della continuità temporale e della sua linearità, ribellandosi ad essa come alla Linea della vita disegnata sulla lavagna, in cui tutte le azioni vanno fatte rientrare nelle categorie di “amore” e “paura”: ci sono un milione di altre emozioni nel mezzo, così come sul tragitto tra la nascita e la morte, la creazione e la distruzione. E a volte, potrebbero addirittura coincidere.

Al suo ritorno nelle sale italiane, a vent’anni di distanza da quando il film di Kelly uscì, il fascino che ancora esercita è da ricercarsi nell’aver creato una rilettura immaginifica e autentica della ricerca del significato della vita, usando un adolescente come l’incarnazione perfetta dell’ansia esistenziale di fronte alle domande con cui gli adulti hanno imparato a convivere. E, da un paio di decenni fa a questa parte, con tutti i cambiamenti che hanno alterato la realtà in cui viviamo, c’è una cosa che non è cambiata: la costante, viscerale, sensazione che il mondo stia per finire.