Da ormai diversi anni il cinema di Denis Villeneuve si inserisce con grande disinvoltura in quella corrente che mira a riconferire uno statuto autoriale alle produzioni blockbuster. Il regista canadese affermatosi nel panorama della produzione indipendente e approdato ad Hollywood nel 2013 con il tesissimo Prisoners si è ormai da qualche tempo inoltrato nel genere fantascientifico. Dopo l’adattamento del racconto Storie della tua vita di Ted Chiang in Arrival (2016) e l’audace incursione nel mondo ideato da Philip K. Dick con Blade Runner 2049, sequel del capolavoro di Ridley Scott datato 1982, Villeneuve si è imbarcato in quello che senza eccesso di zelo potrebbe essere definito come il progetto più ambizioso della sua carriera.

Il ciclo di Dune di Frank P. Herbert è una delle opere fondanti della fantascienza contemporanea, tanto da avere esercitato influenze non solo in ambito letterario, ma anche cinematografico, ispirando opere che esulano dai tentativi di trasposizione diretta e di cui le epopee spaziali di George Lucas e del già citato Ridley Scott oltre che il campione d’incassi Avatar di James Cameron sono solo tra i più illustri esponenti. Nel mezzo il colossale progetto di Alejandro Jodorowsky brutalmente naufragato prima della sua realizzazione e il disastro commerciale cui David Lynch andò tristemente incontro con il suo fallimentare film del 1984.

A distanza di quasi quarant’anni è proprio il regista nativo del Québec a farsi nuovamente carico dell’onere e dell’onore di tradurre le fitte ed evocative pagine di Herbert in immagini per il grande schermo. Un intento evidentemente tutt’altro che privo di rischi, ma parallelamente accompagnato da una massiccia dose di aspettative ben sedimentate proprio grazie ai recenti trascorsi filmici dell’autore. Chi meglio di lui oggi avrebbe potuto impossessarsi di un contesto dalle immani proporzioni come quello concepito da Herbert e restituirlo in tutta la sua carica maestosa senza snaturarne i conflitti e i sottotesti privandolo della sua complessità? Il registro dei lavori di Villeneuve si è col tempo evoluto in un ibrido che abbina perfettamente l’imponenza estetica richiesta dal cinema pop contemporaneo ad una mai svanita poetica personale che comprende eleganza e un certo grado di lirismo visivo.

Nelle sue mani Dune perde quindi l’alone grezzo e polveroso della sua matrice letteraria, per essere raffigurato con precisione quasi geometrica in un universo dal design moderno ed ambientazioni elegantemente squadrate da un rigore che ammicca all’architettura razionalista. Elementi formali e stilistici, questi, che mirano a rivelare l’impronta di Villeneuve su un mondo che per il resto viene ricreato mantenendo intatti clima ed eventi dell’opera originale e soprattutto punta a riprodurne le forze in gioco senza sminuire le loro proporzioni titaniche. Perché ciò che pare evidente sin dai primi fotogrammi di questo primo tassello di un auspicato franchise fantascientifico è proprio la ricerca di un senso di imponenza.

Ogni particolare dell’apparato audiovisivo in Dune ruggisce la propria mole smisurata aggredendo i sensi dello spettatore fin quasi a tramortirlo. I campi infiniti della fotografia di Greig Fraser paiono ulteriormente ampliati nell’overdose di decibel dispensata da un Hans Zimmer mai così stentoreo con le sue musiche, le quali accompagnano e spesso si fondono ai magniloquenti e curatissimi effetti sonori. Un’esperienza straripante, tale da ricoprire di imbarazzo anche solamente l’idea di poterne fruire attraverso un apparecchio domestico. Dune secondo Villeneuve è quindi prima di tutto un richiamo disperato della sala cinematografica verso il proprio popolo, un invito roboante, quasi aggressivo, atto a richiamare i disertori nell’unico luogo in cui questo miracolo sensoriale può compiersi in maniera adeguata.

E all’interno dei confini di questa spirale catalizzante ci si può immergere nei paesaggi di Arrakis, assistere alla distruzione della famiglia Atreides e vagare insieme ai superstiti in cerca di una sopravvivenza pronta a trasformarsi in rivalsa. Sotto gli orpelli delle ambientazioni maestose e degli intrighi politici, Dune è un romanzo di formazione che racconta della crescita del suo protagonista Paul (Thimothée Chalamet) e della scoperta della sua identità tramite un percorso che si dispiega tra disciplina e morale. Un arco che emerge in maniera particolarmente netta grazie ad un lavoro di caratterizzazione volto ad alleggerire il personaggio degli stucchevoli vaneggiamenti filosofici che appesantivano la sua controparte cartacea, per concentrarsi invece sul conflitto ed il senso di inadeguatezza che attanagliano un giovane chiamato improvvisamente a ricoprire il duplice ruolo di leader politico e redentore messianico.

La conoscenza superiore di Paul viene circoscritta ad un acerbo ed incontrollato potere di preveggenza che si traduce pragmaticamente in una serie di suggestivi flashforward, i quali anticipano ciò che potrebbe accadere in un eventuale capitolo successivo, lasciando però un spesso strato di dubbio circa la reale concretizzazioni di tali visioni.

Ed è su questo punto che sorge il maggiore quesito riguardante l’intera operazione. Sì, perché Dune termina con un cliffhanger che spalanca le porte alla necessità di un sequel non ancora ufficializzato in via definitiva e sul quale pende la temibile spada di Damocle del box office. Decisione che, memori del risultato infruttuoso del precedente a vocazione seriale di Villeneuve, pare quantomeno rischiosa. Inoltre, con le restrizioni dovute alla pandemia che ancora pesano sui risultati delle sale, il successo commerciale di un’opera che, peraltro, paga lo scotto di inaugurare un brand cinematografico praticamente inedito, appare tutt’altro che scontato.

Per quanto sia decisamente prematuro anticipare il mancato completamento di un racconto per ora incompiuto, rimane il rammarico per la decisione di non aver concesso a questo film un’auto-conclusività, prevista dalla versione letteraria, che non avrebbe intaccato le sue possibilità di prosecuzione in capitoli successivi. Ma qui si entra in quello che, per adesso, è ancora terreno di pura speculazione. Quello che rimane e di cui al momento possiamo godere è un esempio di sontuoso cinema autoriale che non si vergogna di palesarsi nelle sue ambizioni di richiamo popolare. Questo Dune è tanto impegnativo quanto appagante, ardito fino a sconfinare talvolta nell’eccesso di presunzione, ma sempre e comunque ammantato da quello splendore che non smetterà mai di farci brillare gli occhi al buio della sala.