Dove eravamo rimasti? La visione autoriale di un regista canadese applicata alla progettualità colossale dell’intrattenimento hollywoodiano. Le pagine fitte, addirittura ostiche, di Frak P. Herbert e la necessità di riassumerle in un’opera audiovisiva pensata per il grande pubblico. Arrakis, la Spezia, la caduta della famiglia Atreides e una profezia messianica dal compimento tutt’altro che certo.

Incertezza dovuta non solamente all’incapacità del protagonista Paul di riconoscersi come salvatore di un popolo a lui estraneo, ma, estromettendosi dal contesto narrativo, riscontrabile anche sul piano pragmatico della sostenibilità produttiva di questo sequel. In altri termini, se agli occhi del popolo Fremen di Dune l’ascesa del figlio del duca Leto Atreides al ruolo di Lisan al-Gaib doveva passare attraverso la risoluzione delle conflittualità del personaggio, per gli spettatori desiderosi di ammirare su schermo la chiusura dell’epopea cinematografica di Villeneuve l’ostacolo da superare era invece quello dell’affatto scontato successo commerciale del primo episodio datato 2021.

Archiviata l’accoglienza di Dune: Parte uno come un risultato positivo, eccoci di nuovo immersi nelle distese sabbiose concepite da Villeneuve come terreno edificante per la sua visione di cinema blockbuster. Visione in cui il grande racconto epico non si presenta come il fine ultimo di un processo creativo, ma come spunto iniziale di una ricerca estetica volta al conseguimento di forme di rappresentazione inedite. Analogamente a quanto avvenuto nelle sue precedenti incursioni nella fantascienza, Villeneuve sacrifica gli elementi percepiti come imprescindibili per il funzionamento dei kolossal contemporanei (ritmo, azione, semplificazione drammaturgica), sostituendoli con scorci atipici e un’attenzione maniacale alla ricerca prospettica e cromatica, virata dalle sinuose linee dei paesaggi torbidi di Arrakis alla geometria glaciale in bianco e nero di Giedi Primo, roccaforte dei perfidi Harkonnen.

Il tutto condensato in un incedere sincopato che alterna rapide ellissi ad ampie e dilatate fasi di contemplazione in cui è l’imponenza dello strabordante impianto sonoro a impostare il tono emotivo. È questa la formula del cinema spettacolare secondo Denis Villeneuve, che individua nel rigore stilistico e nella ricercatezza formale il fulcro del proprio fascino. Una visione talvolta percepita come fredda e apatica, ma in cui l’autore crede strenuamente e dalla quale sta ricavando un consenso sempre più ampio. Dopo il fallimento commerciale del pur notevole Blade Runner 2049, la saga di Dune si sta distinguendo come un cruciale punto di svolta per la popolarità di Villeneuve.

Questa Parte due, inoltre, si trova investita di un ruolo quasi salvifico nella landa desolata dei mercati occidentali in questo inizio anno, costretti a fronteggiare le nefaste conseguenze degli scioperi hollywoodiani del 2023. Anche in virtù di questo risultato, ecco che il proseguimento della trasposizione dei romanzi di Herbert appare sempre più probabile, con evidente compiacimento dell’autore che anche in questo secondo adattamento non presenta l’intenzione di approdare ad una chiusura definitiva, gettando altresì le basi per un’ulteriore espansione dell’universo di riferimento e quindi del suo sempre più proficuo processo di rimodulazione del blockbuster.

E alla luce della qualità del prodotto, in quanto pubblico, non possiamo che condividere il medesimo entusiasmo. Se al termine del film precedente si poteva lamentare un senso di frustrazione dovuto ad una così netta, quasi violenta, sospensione del racconto, la seconda parte chiarisce le ambizioni di Villeneuve e la sua volontà di realizzare un’opera estesa che sia apprezzabile nei suoi singoli frammenti, ma il cui senso potrà essere colto e valutato adeguatamente solo quando tutti i tasselli di questo maestoso mosaico saranno stati forgiati e incasellati al loro posto.

Quello che rimane e di cui al momento possiamo godere è un nuovo esaltante esempio di grande cinema di intrattenimento. Un oggetto sontuoso, in grado di coniugare escapismo e riflessione sul nostro presente, ma il cui focus va individuato oltre i facili e grossolani richiami all’attualità politica. La netta sensazione è che Villeneuve non miri con particolare enfasi ad imbastire un’allegoria (che peraltro risulterebbe alquanto sommessa) sulla tragica questione mediorientale, ma che il suo interesse sia perlopiù incanalato verso quel percorso di rielaborazione dello sguardo in riferimento all’immaginario del cinema a vocazione dichiaratamente commerciale.

La mitologia dell’opera seminale di Herbert rimane pertanto un laboratorio in cui fondere linguaggi poco affini, nel tentativo di sintetizzarli in un ibrido irriconoscibile. Una spedizione alla ricerca del blockbuster dei nuovi anni Venti, tra sensibilità autoriale e gusto del pubblico, tra complessità e accessibilità, seguendo un concetto personale di bellezza al fine di ampliarlo e renderlo qualcosa di condiviso e universalmente apprezzabile.