È legittimo pensare che Christopher Nolan ci abbia visto lungo. Partendo dai primi lavori, interessanti e lodevoli thriller cervellotici, è poi giunto a quello che oggi è considerato il passaggio a livello fondamentale per diventare qualcuno nel panorama mainstream: il cinefumetto. Con la trilogia de Il cavaliere oscuro Nolan ottiene il trionfo che stava cercando. Il suo Batman ridisegna i confini del genere, la sua volontà di realismo nel raccontare di uomini in calzamaglia diventa immaginario da imitare e gli ammiratori diventano vera e propria fanbase, spesso feroce e assolutista, come quella di Quentin Tarantino ai tempi di Kill Bill.
Nolan si guadagna quindi la libertà di poter fare ciò che vuole con il budget desiderato, persino andare nello spazio con un attore protagonista fresco di Oscar. E nel seguire le orme del suo maestro dichiarato Stanley Kubrick – in questo senso nel mutare forma di film in film –, dopo il thriller, il cinefumetto e la fantascienza, è stata la volta del cinema di guerra.
È una guerra narrata in modo decisamente inusuale quella che vediamo in Dunkirk, il suo nuovo film in prima visione da questa settimana al cinema Lumière nello splendore della pellicola 70 mm. Una guerra privata di ogni sorta di pacchiana epica battagliera e che mette in primo piano lo spirito di sopravvivenza, l’unica cosa che davvero interessa a Nolan nel raccontarci cosa accadde ad un esercito di oltre 400 mila soldati inglesi il 26 maggio del 1940, quando si ritrovò accerchiato dalle forze nemiche tedesche a Dunkerque (Dunkirk in inglese) e fu costretto a battere la ritirata.
In Dunkirk il nemico non si vede mai perché è il tempo il vero nemico. Del resto per Nolan lo è sempre stato. La memoria a breve termine che in Memento costringe ad una narrazione a ritroso. I pochi minuti che il Joker concede a Batman per affrontare due situazioni che accadono nello stesso momento e risolverle entrambe. I molteplici livelli onirici di Inception, ciascuno con una propria velocità temporale pur accadendo simultaneamente, così come in Interstellar, dove un’ora può durare anni a seconda dell’angolo di spazio profondo in cui ci si trova.
Eppure con Nolan i differenti tempismi riescono sempre a toccarsi, fosse anche solo per un istante trovano punti di contatto in cui si sfiorano e comunicano, permettendo un collasso della percezione temporale su se stessa. In Dunkirk ciascuna delle tre storie narrate, una nei cieli, una sulla spiaggia e una sul mare, ha un andamento temporale proprio, però si intrecciano, convergono e si confondono fino a sembrare che accadano in contemporanea. E la tensione per il poco tempo che hanno tutte e tre di svolgersi prima dell’arrivo delle truppe naziste o di un altro cacciabombardiere, tiene incollati allo schermo per tutti i 106 minuti di queste tre estenuanti azioni incrociate, martellate da un Hans Zimmer con l’idea – didascalica quanto volete, ma vincente – di utilizzare il ticchettio di un orologio per dare il quattro quarti ai violini e agli ottoni della sua colonna sonora.
Ma l’aspetto forse più interessante è che, arrivato alla sua decima fatica, Nolan decide di lasciare a casa le parole in virtù di un mutismo che guarda a Terrence Malick. Scordiamoci la prolissità dei dialoghi tra il miliardario Christian Bale e il maggiordomo Michael Caine; scordiamoci il contorto mondo al di là dei sogni il cui funzionamento è tediosamente spiegato da Leonardo DiCaprio; ma soprattutto scordiamoci tutto quello che non avete mai voluto sapere sui buchi neri ma Matthew McConaughey ve lo dice lo stesso. Finalmente scevro della sua logorrea, Nolan mette il suo algido rigore kubrickiano al servizio di una fuga disperata tra fuoco e piombo raccontata per immagini e azioni, prendendosi pure il lusso di lunghi silenzi e insistiti primi piani sui protagonisti, che senza proferire parola dicono tutto. Forse Mad Max: Fury Road gli è piaciuto parecchio. Del resto anche qui c’è Tom Hardy.
Nolan rinuncia tanto alle didascalie quanto alla facile retorica da war movie hollywoodiano. Dunkirk non è l’affresco storico dove viene ritrovata grinta patriottica nella sconfitta, ma il racconto corale di una sopravvivenza che viene glorificata in quanto tale, in quanto spirito che non cede dinnanzi all’ineluttabile destino che riserva la guerra, dove ci si salva per un soffio e quando non è così si muore come mosche. Un La sottile linea rossa senza voci filosofiche interiori che prendono poeticamente per mano le immagini, dove nessuno è personaggio o protagonista ma tutti insieme diventano qualcosa che non ha intenzione di arrendersi.
Nolan, i tuoi detrattori sono pronti a perdonare tutti i fiumi di parole con cui hai farcito i tuoi precedenti lavori, se sono stati necessari per arrivare a questo.