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“Dunkirk” e il punto di vista dell’Altro

Ossessione Dunkirk. Come prevedibile, il film di Christopher Nolan continua a suscitare il dibattito interno alla redazione e a stimolare i collaboratori sull’analisi e la critica del war movie più interessante di questi anni. In particolare, il rapporto di Nolan con l’identità e il racconto continua ad essere il luogo critico più controverso, insieme alla costruzione temporale del film. Forse Dunkirk sarebbe stato più alto e permeante di come già è, se Nolan avesse aderito in maniera ancora più puntuale – e non soltanto sul lato apparente ed estetico – al concreto terreno della prassi storica?

“Dunkirk”, l’esperienza deve sopravvivere

Dunkirk arriva nelle sale italiane, alcune in pellicola 70 mm, a un anno da The Hateful Eight. Ma soprattutto arriva dopo Interstellar, il film in cui i padri si incontrano nel futuro, quello in cui al grido di “Eureka, è un classico!” Nolan è uscito allo scoperto: lo Spazio come gli oceani di Melville e Conrad, la cattura di un drone come scena di pesca alla Hemingway; fedele allo spirito di quella dichiarazione sincera, Dunkirk ne è la prosecuzione a livello tematico e contemporaneamente sa liberarsi di ogni zavorra, del lavorio di meningi, della verbosità; non si è praticamente mai visto tradurre un budget di 100 milioni in un’essenzialità simile.

“Dunkirk”, il tempo e il silenzio

È legittimo pensare che Christopher Nolan ci abbia visto lungo. Partendo dai primi lavori, interessanti e lodevoli thriller cervellotici, è poi giunto a quello che oggi è considerato il passaggio a livello fondamentale per diventare qualcuno nel panorama mainstream: il cinefumetto. Con la trilogia de Il cavaliere oscuro Nolan ottiene il trionfo che stava cercando. Il suo Batman ridisegna i confini del genere, la sua volontà di realismo nel raccontare di uomini in calzamaglia diventa immaginario da imitare e gli ammiratori diventano vera e propria fanbase, spesso feroce e assolutista, come quella di Quentin Tarantino ai tempi di Kill Bill.