Il fremito istintivo ad abbandonare la società sull’orlo dell’abisso e rifuggire nella natura selvaggia, incontaminata dalla civiltà, è un pensiero che nel susseguirsi dei secoli, ha attraversato una pluralità di menti e partorito alcuni tra i più celebri romanzi e le più acute teorie filosofiche e antropologiche.
Quella di Eden - film diretto da Ron Howard, presentato al quarantaduesimo Torino Film Festival (2024) - è una storia poco conosciuta che merita tutta l’attenzione da parte dell’occhio cinefilo attratto dai survivor movie e affascinato dagli scenari perturbanti ed estremi sulla scia de Il signore delle mosche.
Il soggetto si ispira agli avvenimenti realmente accaduti sull’isola di Floreana durante gli anni Trenta del secolo scorso e restituisce la versione raccontata da Margret Wittmer (Sydney Sweeney), moglie di Heinz Wittmer (Daniel Brühl). Per accondiscendere la volontà del marito, Margret abbandona la Germania per trasferirsi nelle Galapagos, in una terra sconsacrata dalla civiltà, imitando l’esempio dell’ascetico e misantropo Dr. Friedrich Ritter (Jude Law) e della sua amante e seguace Dora Strauch (Vanessa Kirby), giunto su Floreana per scrivere e restituire al mondo un nuovo paradigma di civiltà umana.
L’equilibro precario della comunità “costituita” precipita irreversibilmente nell’anarchia degli istinti con l’arrivo della Baronessa Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), sbarcata sull’isola insieme ai suoi due amanti per costruire un resort di lusso, la Hacienda Paradiso.
Questa vicenda storica, imbevuta di mistero, omicidio e di limiti per la sopravvivenza umana compone un corpus di tematiche convulse che Howard restituisce attraverso una regia razionale ed equilibrata, un montaggio che segue zelante la catabasi del mito del buon selvaggio e immortala il ritratto dell’umanità più nichilista e primitiva, ove l’uomo produce il male come le api producono il miele.
La trama è sicuramente l’elemento più aggressivo dell’opera e trova una sua corrispondenza stilistica nell’utilizzo di una fotografia cruda, graffiante e radicata nella prevaricazione degli scatti improvvisi che codificano il montaggio. A ciò si incastrano alcune riprese originali in bianco nero di Allan Hancock che alla metà degli anni Trenta giunge a Floreana per documentare le imprese dei sopravvissuti.
Ogni personaggio è schiavo dei propri istinti e predatore nei confronti delle necessità altrui. L’ideale di convivenza democratica all’interno di un paradiso mefistofelico cade vittima della fame, della lotta contro una Natura ostile e del principio che rende l’uomo un lupo per l’uomo. Proprio il Dr. Ritter, il cui scopo è quello di ridefinire i tratti di una nuova umanità più pura e autentica, racchiude in sé la teoria dell’evoluzione fallimentare e restituisce il volto più nichilista e avvilente dell’uomo, nel suo stato di natura.
Cosa ci rende umani quando umani non si è più? Questa sembra essere la domanda attorno alla quale Ron Howard costruisce la sua versione della vicenda, esportando una storia passata sulla sopravvivenza di uomini e donne in un tempo presente sulla sopravvivenza delle democrazie. Come in Elegia americana (2020) o A Beautiful Mind (2001), il regista estrapola da storie straordinarie, quei valori ordinari che sostengono il peso dell’esistenza e della civiltà.
E in Eden, proprio Margret Wittmer si rivela essere la chiave per decifrare gli esiti tragici del deragliamento umano e per costituire un nuovo equilibrio al crepuscolo degli idoli.