La cosa peggiore che si potrebbe fare a un film come El Topo sarebbe cercare di analizzarlo troppo. Infatti è così colmo di immagini, simboli, suggestioni, riferimenti che dà l’idea di essere sempre in trasformazione, in movimento, come un inarrestabile flusso di coscienza, come un interminabile zibaldone di pensieri. Tuttavia Jodorowsky non è ermetico come un Lynch ed è comunque possibile estrarre dall’astratto qualche punto fisso concreto, che ci permette di carpire un poco del suo messaggio. El Topo è infatti nettamente diviso in due parti ben distinte, che fanno ognuna riferimento a un contesto valoriale e culturale diverso.

La prima parte è grottesca, giocosa, giovialmente nonsense. La stravaganza degli avvenimenti, del trucco, della recitazione, dell’ambiente fa pensare subito a un prolungato sketch dei Monty Python e, in generale, a un film di Terry Gilliam. Il protagonista, El Topo appunto, silenzioso e violento, vaga per un west desertificato in una quête inutile e immotivata, accompagnato da due donne misteriose. Ovviamente la sua ricerca si risolve in niente, ma il pubblico non può sentirsi frustrato; è ovviamente una presa in giro, ma Jodorowsky si è preso gioco di noi con la nostra complicità, per il nostro divertimento, e così una non risoluzione si trova ad essere più soddisfacente che qualunque finale.

La seconda parte è radicalmente differente, scegliendo di virare verso un surrealismo che è soprattutto critica sociale, alla Buñuel. Qui le allegorie sono evidenti e la satira pungente, il contesto più serio e la voglia di giocare per una gran parte scomparsa. Jodorowsky mette a nudo l’ipocrisia della società borghese cristiana, preda di un fervore religioso quasi fanatico per un credo esso stesso deviato e corrotto. Il microcosmo del villaggio in mezzo al deserto rappresenta una società che è convinta di essere perfetta, “decente”, salvo poi dare prova delle loro perversioni in ogni occasione. L’antitesi di questa società è la comunità di deformi e invalidi (causata dai numerosi casi d’incesto del villaggio, quindi risultato anch’essa della perversione delle “persone perbene”) confinata in una grotta, lontano dalla vista di tutti perché orridi e imperfetti. È insieme a loro che finisce El Topo che, tramutatosi in santone, si innamora di una ragazza nana e si adopera per liberare la comunità dalla prigionia. La sua vicenda non può che finire con un’immolazione, dopo aver punito la gente del villaggio per i loro peccati, a cui segue il ritorno della situazione dell’inizio del film, quasi in una visione stoica della ciclicità di tutte le cose.

El Topo è, alla fine, un elogio della bruttezza, dell’imperfezione contro una perfezione paventata ma mai reale. “Troppa perfezione è un errore” ci ricorda El Topo dopo aver sconfitto un suo nemico, ma anche “la perfezione è perdersi”. E così El Topo ci fa perdere, per poi farci ritrovare, in un film che è più chiaro di quanto non si voglia ammettere.