In Inside Out (2015) era la volta delle cinque emozioni primarie. In Elemental tocca invece ai quattro elementi. Se quello di Pete Docter divenne presto un paradigma, un manifesto poetico e produttivo in grado di sancire la fine di un’epoca creativa per la casa di Emeryville, quello di Peter Sohn incarna la sintesi più cristallina di cosa questa sia poi diventata. I quattro elementi naturali (terra, aria, acqua e fuoco), a ben vedere, hanno scandito le tappe della filmografia Pixar.

Possiamo facilmente ricollocare al primo termine film come A Bug’s Life – Megaminimondo (1998), Cars – Motori ruggenti (2006) o Il viaggio di Arlo (2015, esordio di Sohn); al secondo appartengono invece Wall-E (2008) e Up (2009); al terzo Toy Story 3 – La grande fuga (2010), Ribelle – The Brave (2012) o Coco (2017); mentre all’ultimo chiaramente le avventure di Alla ricerca di Nemo (2003), Alla ricerca di Dory (2013) e Luca (2021).

Quello che ci sorprende notare oggi, però, è che più di un film elementale, più che una summa delle parti che lo hanno preceduto, Elemental sia un film elementare. Sotto la superficie (sempre impeccabile, ma priva di vere intuizioni che vadano al di là della più che lodevole resa estetica) si percepisce lo sforzo di un regista ingabbiato da una produzione troppo invadente. Sohn veste i panni del giocoliere, lavora democristianamente provando a mantenere in equilibrio tutte le corde che minano alla riuscita del progetto.

Da una parte la responsabilità e (giustamente) la consapevolezza di avere una grande occasione tra le mani per poter raccontare una storia molto personale (il film si ispira ad alcuni fatti autobiografici che riguardano la sua infanzia), da un’altra l’omologazione a un immaginario urbanistico che sembra difficile da scardinare (si vedano i casi di Zootropolis (2016), Ralph spacca Internet (2018) o Encanto (2021), giusto per citare gli esempi più evidenti); da un’altra ancora una struttura narrativa decisamente comune a molti altri progetti di casa Disney che negli ultimi anni stanno provando a privarsi di antagonisti ben definiti. Bisogna accontentare chiunque, ma ci sono troppi agenti in gioco.

Proprio come nel precedente Il viaggio di Arlo, Sohn insiste su storie di complementarietà improbabili, di opposti che si attraggono osteggiati da forze prima di tutto fisiche (l’essere umano e il dinosauro, l’acqua e il fuoco) oltre che socio-culturali. Certo, proprio come nel film del 2015, anche qui indovina la caratterizzazione basilare (di nuovo, elementare) dei protagonisti lavorando all’opposto degli stereotipi: lui figlio di una famiglia borghese, altamente sensibile ed emotivo; lei figlia di immigrati, per niente interessata a una scalata sociale e con un carattere decisamente freddo e difficile.

Eppure, se l’opera vuole timidamente ricordarci quanto sia importante provare a uscire dagli schemi, a sovvertire le regole, a rompere le righe di un’impalcatura precostituita e progettata da fattori terzi, il primo a non credere in questa filosofia sembra essere il film stesso. Elemental predica bene e razzola male. Peccato.