I classici Disney arrivano a quota sessanta. Sono passati oltre ottant’anni dall’esordio, l’indimenticabile Biancaneve e i sette nani (1937), e quest’ultimo lavoro firmato a sei mani da Byron Howard, Jared Bush e Charise Castro Smith segna un traguardo importantissimo per la casa di Topolino. Vista l’occasione, non sorprende che Encanto sia uno dei titoli più festosi, colorati e vivaci della filmografia Disney. Ambientato esclusivamente (o quasi) all’interno di una fatata stamberga abitata da una famiglia, i Madrigal, dotata di poteri magici, il film si presenta come un carosello di canzoni, intuizioni visive e sequenze coreografiche che trovano proprio nell’ispirata regia la loro più indovinata espressione. Eppure, proprio perché si tratta di un tassello in qualche modo celebrativo, è doveroso spingersi oltre la “semplice” cura delle immagini per dialogare più da vicino con un progetto che sembra invece voler fare il punto sulla strada percorsa e quella ancora da intraprendere.

Non è infatti difficile scorgere dietro le parvenze dei Madrigal e della loro dimora (si legga castello fiabesco) gli sfarzi di una casa di produzione che lungo il suo operato ha guidato spettatori di tutto il mondo dentro universi magici, colorati e immaginifici proprio come le singole stanze che costituiscono la planimetria dell’abitazione dei protagonisti. Encanto non vuole trasformarsi in un gioco citazionista ma lavora per analogie in grado di abbracciare le tappe più importanti della carriera Disney: si passa così dalla prima sequenza cantata che ricorda da vicino l’incipit de La bella e la bestia (1991), sino alla presenza di un fantomatico e lontano Bruno che richiama alla memoria, sia per il nome che per la sua assenza, il povero (e inesistente) omonmo zittito da Luca e Alberto nel più recente film Pixar di Enrico Casarosa.

Eppure, dietro a questa intenzione di ripercorrere la strada fatta c’è anche l’idea tematica e produttiva più forte del film. Esattamente come la frizione tra la giovane Mirabel e l’austera nonna a capo della casata, la distanza generazionale tra il glorioso passato e l’incerto e disincantato presente rischia di minare le fondamenta della famiglia stessa, prima ancora che quelle della dimora magica. Di nuovo, così come è stato in Oceania o anche nel più recente Raya e l’ultimo drago (2021) è il ponte tra il vecchio e il nuovo a diventare colonna portante dell’avvenire. Encanto, quindi, raccoglie al suo interno questa complessità tematica e prova a espletarla attraverso una forma narrativa ed estetica rispettosa della tradizione (l’impianto musicale, le citazioni già discusse, ecc.) ma rivolta a nuovi orizzonti.

Sarà per la presenza in fase creativa di Byron Howard e Jared Bush (due tra gli autori più significativi di questi ultimi anni dinseyani), sarà per l’assenza di un antagonista (concetto già abbozzato in Oceania ma qui portato maggiormente a compimento) o per l’intuizione di rispettare l’unità di luogo riuscendo comunque a spaziare tra più generi (il musical, il dramma familiare, la commedia e persino l’horror), ma Encanto sembra inserirsi perfettamente in questa nuova fase che potremmo denominare “neo-rinascimento”. Dopo l’exploit degli anni Novanta infatti, dove film diventati subito intramontabili hanno risvegliato le sorti di una Disney quanto mai disorientata e confusa, il nuovo millennio è stato probabilmente il periodo più eterogeneo e meno coerente della casa. Tra la crisi creativa dei classici, l’ascesa di Pixar, l’assimilazione delle galassie Marvel e Star Wars e l’arrivo della piattaforma streaming, i classici hanno subito una mancanza di coesione che si è palesata a più riprese.

Ora però la voglia di fare luce su questi anni, unita alla bravura di un gruppo di autori in grado di attuare una rivoluzione tematica ed estetica solamente sulla base dello studio e del rispetto di un passato che ha fatto Storia, ha preso piede e sta portando alla luce film riusciti, solidi e compatti nel proporre un nuovo immaginario più intimo, fragile e quotidiano che in passato. Si pensi al monocromatico regno innevato di  Frozen (2013), alla vulnerabilità di Ralph spaccatutto (2012) o alla versatilità videoludica del già citato Raya e l’ultimo drago. Encanto è probabilmente l’opera più completa e matura di questo processo attraverso il quale Disney sta provando a rispondere alle minacce di disgregamento delle sue fondamenta guardandosi indietro (come il gusto del mercato cinematografico tout court sembra imporre da qualche anno a questa parte) per ritrovare il coraggio di convogliare tutte le sue (i)stanze verso un obiettivo comune: la riscoperta della magia.

Solo il tempo ci dirà se queste in effetti saranno le nuove fondamenta sulle quali si baserà l’impero Disney nei prossimi anni. Per il momento però, siamo lieti di aver fatto la loro conoscenza: encantados!