In Jane Fonda in Five Acts, Susan Lacy, regista interessata a indagare le connessioni tra icone e società americana dai documentari American Masters ai più recenti lavori su Bob Dylan e Steven Spielberg,  mette in scena l’attrice americana in un’intervista monumento che non risparmia temi scomodi come la malattia mentale e il suicidio della madre, i tradimenti del padre e dei tre mariti, i disturbi alimentari di cui Fonda ha sofferto fin da adolescente e la relazione controversa con la figlia Vanessa. La Fonda dell’ultimo atto emerge sicura, elegante, militante e nuovamente diva: non a caso, il prologo coglie Jane al trucco nella sua elegante residenza prima della cerimonia dei Golden Globes per Youth (2015) di Sorrentino. Più che per i Golden Globes, dove compare in uno splendido abito bianco Yves Saint-Laurent, il trucco sembra preparare l’attrice per il film della sua vita, per tutti i diversi ruoli ricoperti nel passato montati sapientemente con pezzi di interviste e fotografie sui titoli di testa: figlia d’arte, sex symbol ribelle, militante per i diritti civili delle minoranze, angelo del focolare del capitalismo aziendale.

Nel primo atto, “Henry”, debutta sulle scene la ragazza della porta accanto che vuole accontentare papà Henry, distante e anaffettivo, e che trova in Lee Strasberg un insegnante capace di valorizzarla. Nonostante il successo immediato e l’intesa folgorante con Robert Redford sul set di A piedi nudi nel parco (1967), a Jane va stretto il ruolo di fidanzatina d’America, a cui Hollywood sembra relegarla in adattamenti cinematografici di commedie sentimentali di successo a Broadway. Inizia così il secondo atto, “Vadim”, in cui Jane cambia abito e continente, diventando la fantasia sexy della Nouvelle Vague, plasmata da Roger Vadim e finalmente libera dalle convenzioni borghesi. Sono gli anni di Barbarella (1968), che Fonda non voleva interpretare, ma anche del ritorno negli Stati Uniti, con film più sentiti e politicamente impegnati come Non si uccidono così anche i cavalli? (1969) di Sydney Pollack, appassionato ritratto delle maratone di ballo degli anni della Grande Depressione come metafora per l’avidità che regola i rapporti nella società consumistica americana, e Una squillo per l’Ispettore Klute (1971) di Alan J. Pakula, che le vale il primo Oscar e un taglio di capelli che ne definisce la nuova identità. Con questi due film, Fonda inizia finalmente a trovare una voce, sia Pollack che Pakula le danno carta bianca per fare suoi i personaggi che deve interpretare.

Nel terzo atto, “Tom”, Jane ritrova il ruolo di “Hanoi Jane”, ossessione della destra americana e eroina femminista dei movimenti della contro-cultura a fianco di Tom Hayden, attivista radicale la cui carriera politica Fonda finanzia con i suoi video di ginnastica aerobica, storico successo commerciale di dimensioni mondiali. Pur nell’infuocare delle polemiche, Fonda vince il secondo Oscar per Tornando a casa (1978) di Hal Ashby, su quegli stessi reduci del Vietnam che vorrebbero processarla per alto tradimento. Diventa anche produttrice di se stessa, realizzando film che affrontano temi a lei cari come la minaccia di olocausto nucleare in Sindrome Cinese (1979) e i diritti delle donne lavoratrici in Dalle 9 alle 5 . . . Orario continuato (1980). Ed è anche il tempo della riconciliazione cinematografica con il padre con cui interpreta Sul lago dorato (1981), loro unico film insieme. Il quarto atto, “Ted”, ci mostra la moglie che rinuncia alla carriera cinematografica e, in parte, alla politica, per amore del marito Ted Turner, magnate multimiliardario della CNN sposato nel 1991, che la sa conquistare con la sua ironia e gioia di vivere ma che, alla lunga, la soffoca come gli altri uomini della sua vita.

Nonostante i primi quattro atti siano nominalmente dedicati ai quattro uomini che hanno tentato di controllarne la vita, il carisma divistico e politico di Jane Fonda li rende semplicemente comprimari. A ottant’anni, nel quinto atto della sua narrazione, Fonda ritrova una nuova visibilità come modella per L’Oréal, come star hollywoodiana, come donna militante senza necessità dell’approvazione maschile. Grazie ad un prezioso lavoro di archivio, il documentario affascina e restituisce la complessità di un’icona che riesce a rendere credibile la sceneggiatura non sempre apparentemente coerente della sua vita.