Gli alberi, un temporale estivo, la periferia romana, la disoccupazione e il decadente contemporaneo. Favolacce inizia pienamente assestato sui binari del cinema del reale italiano. E come tale sembra sposare la dedizione verso un racconto degli ultimi, verso uno sguardo sul marginale (dedizione già sviscerata nel precedente La terra dell’abbastanza). Ma, lo si può intuire subito, il secondo film dei fratelli D’Innocenzo (Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2020) percorre tutta un’altra strada. L’ultima collaborazione dei registi al soggetto di Dogman, per esempio, ne era un fatto sintomatico.

I due realizzano un cinema che segue il percorso tracciato da nuovi autori come Garrone: quello di un ritorno agli sfarzi del grottesco, più narrativo e meno votato al manierismo, ma comunque impegnato a raccontare l’oggi. Infatti, a muovere la prima parte del film è un sentore di crisi: economica ma anche sessuale, che riguarda l’Italia (disoccupazione, precariato, periferie decadenti) ma anche la mascolinità (perdita di autorità paterna, fragilità maschile). Ad essere in crisi è tanto lo spazio quanto il corpo. Ed è proprio attorno a questo squilibrio sociale che i registi covano il grottesco, che investe la seconda parte del film.

Il microcosmo di Favolacce è il piccolo quartiere di villette a schiera. Ricorda quello di Edward mani di forbice, dove la perfezione e la precisione erano metafora di un’omologazione consumistica efferata e competitiva. E dove, qui contrariamente, si ribalta in imperfezione e disordine che appiattiscono quella competitività comunque presente. Pur ricordando il film di Burton, il luogo non può che essere paragonato, ancora una volta, a Dogman: per l'utilizzo astratto che i D’Innocenzo ne fanno, come non-luogo, pur costruito su coordinate precise. L’azione riesce a suggellarsi al suo interno, lasciando spazio al manifestarsi di due conflittualità: quella registica e quella diegetica tra i corpi in scena.

La conflittualità registica è misurata sull’ambivalenza tra gli interni e gli esterni, tra i dettagli e i campi lunghi, ma soprattutto tra il mostrato e il non mostrato. Se, negli esterni, lo sguardo dall’alto si fa oggettivo e distante sulla crudeltà (richiamando un'estetica da telecamera di sicurezza), quando non è tale non mostra e non interagisce, lasciando all’immaginazione cinica la crudeltà in controcampo.

La seconda conflittualità, narrativa e diegetica, è quella generazionale. Il rapporto tra generazioni non è né scontro né confronto ma semplice convivenza parallela, alimentata da differenze abissali. Questo ricorda un recente film francese: L’ultima ora. Come in quest’ultimo, il gap tra i due macrogruppi di personaggi è alimentato dalla pulsione masochistica verso la morte dei giovani, incomprensibile all’adulto (quanto allo spettatore). Qui il masochismo sta nella completa assoggettazione dei bambini maschi a figure femminili potenti, tra tutte la ragazza incinta (figura materna orale, portatrice sana di seno e grembo).

Non è un caso che personaggi, spesso soggetti dello sguardo, affrontino la relazione con la ragazza attraverso un voyeurismo feticistico fatto di dettagli, sessuali e non, del corpo. E non è un caso neanche che il conseguente bisogno masochistico di sofferenza muti nella pulsione di morte. Diceva Gaylyn Studlar in un saggio dal titolo Il masochismo e i piaceri perversi del cinema: “Solo la morte può essere una soluzione mistica finale per l’espiazione del padre e per l’unione simbolica con il ruolo materno idealizzato”. Non è allora neanche casuale che siano le figure dei padri quelle investite della carica più ambigua e complessa.

In risposta alla totale mancanza di paura dei figli, Favolacce gioca attraverso la paura (dei genitori) per i figli, come frutti della vita e portatori simbolici di un futuro in declino. Mentre l’estraneità al grottesco si fa sempre più caratteristica dei genitori, questi diventano soggetti mediatori per lo spettatore. Diventano i veri protagonisti. Anche se, di certo, non gli eroi.