Dopo Il cibo degli dei di Bert I. Gordon e Street Trash di J. Michael Muro, per il focus "Eat the Future" all’interno del Future Film Festival 2015 dedicato all’alimentazione nel cinema fantastico, poteva mancare all’appello il mitico Bad Taste di Peter Jackson? Sarebbe stato un errore imperdonabile.
C’era una volta in Nuova Zelanda un giovane ragazzo di 17 anni di nome Peter. Dopo essere rimasto folgorato dalla visione de Il Signore degli Anelli di Ralph Bakshi, iniziò a leggere l’omonimo romanzo da cui il film d’animazione del 1978 è tratto e pian piano nacque nel suo piccolo cuore l’amore per J. R. R. Tolkien. Da quel momento per anni il giovine avrebbe tenuto nel cassetto il sogno di portare sul grande schermo le avventure di Frodo, Gandalf e compagnia. A costo di aspettare tanto, tantissimo tempo. E come va a finire la storia lo sappiamo tutti: 17 premi Oscar, il genere fantasy libero dalle catene degli anni Ottanta ed essere nerd era diventato fico. Ma oggi Peter sa bene che non sarebbe mai stato possibile esaudire quel desiderio se prima di approdare nella Terra di Mezzo non si fosse fatto le ossa con i suoi primi incredibili lavori. Guizzi di una tale demenzialità splatter che, me lo ricordo come fosse ieri, quando nei titoli di apertura lessi “Prodotto, scritto e diretto da Peter Jackson” la mia reazione fu: “Ma no, dai, sarà sicuramente un omonimo!”. E invece no, era proprio quel Peter.
Già, perché prima che Hollywood ne riconoscesse il talento, Jackson era il ragazzaccio spudorato dall’umorismo anarcoide che diede vita a quella che mi piace chiamare la “trilogia del cattivo gusto”: Bad Taste (che tradotto significa per l’appunto cattivo gusto), l’esplosivo esordio di Jackson, non solo ne delinea le caratteristiche ma è anche l’unico film del trittico (gli altri due sono Meet the Feebles e Braindead) che funziona come ottimo esempio di fantascienza girata con pochi mezzi. Jackson crea una miscela inaudita di elementi da horror a basso costo e toni sopra le righe (da Non aprite quella porta di Tobe Hooper a La casa di Sam Raimi), fino alla costruzione di vere e proprie gag dal tempismo comico impeccabile. Gli amanti del gore troveranno pane per i loro denti, ce n’è per tutti: sangue a frotte, arti squartati, cervella che saltano, gente che beve vomito. Bad Taste ha fatto scuola. Sono pronto a scommettere che è stato quando arriva la morte improvvisa e totalmente gratuita di un “certo animale” che Jonathan King ha iniziato a pensare al suo Black Sheep.
La trama è volutamente non chiara fino a metà, finché il capo degli alieni invasori non ci rivela che fine hanno fatto gli abitanti della cittadina di provincia misteriosamente scomparsi e quando arriva la spiegazione c’è da ribaltarsi dal ridere. E pensare che forse questa cruenta e divertita mattanza non sia totalmente fine a se stessa: tra le sue esagerazioni vi è infatti un attacco spietato alla logica del fast food, come a dire che il bad taste in realtà ce lo abbiamo noi, non gli alieni, né tantomeno Jackson.