L’attenzione mediatica generata dalla recente scomparsa di Flavio Bucci si è concentrata in massima parte sullo stile di vita dell’attore, enfatizzando le sue stesse dichiarazioni dell’ultimo periodo di vita. L’attore è così diventato il protagonista postumo di una moralità teatrale, una pièce allegorica di successo, corruzione e declino che lui certamente non avrebbe mai interpretato. Non così tanta attenzione come avrebbero meritato hanno, invece, ricevuto le dichiarazioni dell’artista sui personaggi che ha interpretato e l’analisi di quelle stesse caratterizzazioni che hanno fatto di lui una maschera di libertà e di sovversione delle gerarchie sociali e politiche, quasi una risposta italiana al volto francese di Pierre Clementi, attore feticcio per molto cinema politico degli anni Sessanta.

Fin dagli esordi con Elio Petri - “il mio maestro” lo ricorda Bucci in un’intervista a Domenico Iannacone -  prima nel ruolo secondario di La classe operaia va in paradiso (1972), e successivamente come protagonista di La proprietà non è più un furto (1973), l’attore incarna un’istanza di giustizia sociale e di cambiamento da società dell’alienazione e dell’avere a società dell’essere. Sull’eredità politica degli anni 60 e 70, Bucci ritornerà, più criticamente, con il personaggio di Svitol nel film di Marco Tullio Giordana, Maledetti vi amerò (1980).

Nel 1977, con il ruolo del pittore Ligabue nell’omonimo sceneggiato RAI di Salvatore Nocita, Flavio Bucci porterà questa istanza di libertà e cambiamento ad un pubblico di più di venti milioni di persone. “In Ligabue”, ricorda l’attore, “c’è la rivendicazione di tutta una classe: tutti possono essere qualcuno. Un uomo quasi semianalfabeta che diventa un famoso artista . . .”. L’interpretazione del pittore offerta da Bucci porta la narrazione, modellata dalla sceneggiatura di Cesare Zavattini, oltre i limiti biografici della vita dell’artista. Con gli occhi sbarrati ma lucidi, in primi piani indimenticabili, il Ligabue di Bucci tratteggia i temi del dibattito politico, sociale ed estetico di quegli anni quali il perdurare di condizioni di povertà nelle zone più rurali del paese, i fenomeni migratori verso l’interno e l’esterno della nazione, la condizione dei manicomi, il diritto alla sessualità per ognuno e la rottura rispetto alle forme tradizionali di espressione artistica. La scena dell’inavvertita apertura delle sbarre del manicomio il giorno della caduta del fascismo è metafora di una promessa di libertà che fatica a materializzarsi anche trent’anni dopo, in pieno dibattito sulla legge Basaglia.

Dopo il grande successo di pubblico e critica di Ligabue, che gli vale anche il Nastro d’Argento e il premio al festival di Montreal come migliore attore, la carriera di Flavio Bucci prosegue divisa tra teatro, la sua passione più importante, cinema e televisione e dà modo all’attore di lavorare con i più importanti registi italiani da Monicelli a Virzì, da Argento a Sorrentino. L’attore continua ad interpretare personaggi che scavano nelle istituzioni e nella società per riformarle o portarne a galla il marcio, come il politico cattolico riformista Don Sturzo nello sceneggiato omonimo del 1981, il commissario Francesco Ingravallo in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1983), tratto da Gadda, o il parroco antimafia Don Manfredi Santamaria nel grande successo de La Piovra (1984) di Damiano Damiani. Oltre a queste prove drammatiche, Bucci ha dimostrato di essere ugualmente a suo agio nel realizzare la critica dei soprusi del potere anche con maschere più carnevalesche e surreali, come per il personaggio di Don Bastiano ne Il Marchese del Grillo (1981) e dell’andreottiano di ferro Franco Evangelisti ne Il divo (2008).