Il polveroso e romantico Ritz, il cinema che conta più di un comprimario nel nuovo film di Aki Kaurismäki, sembra uscito da una delle cronache cinematografiche che il surrealista eretico Robert Desnos pubblicava alla fine degli anni Venti sulle riviste parigine: "Ci sono sale cinematografiche di periferia vuote come hangar, e belle come un imbarcadero del sogno. Sono quelle che preferisco. […] le sale povere, quelle in cui la pittura tende a scrostarsi e che nascondono la loro lebbra sotto i bei manifesti dei film, possiedono un’autentica atmosfera di emozione e di avventure". È appunto in una di queste sale, dove tutto pare «subacqueo, vago, irreale», che Ansa e Holappa, protagonisti di una storia d’amore in cui gli errori valgono più delle parole, vanno a vedere I morti non muoiono di Jarmusch (amico di vecchia data di Kaurismäki).

Nel film di quasi ogni altro regista – tranne che di certi maestri del ciné-boulevard come Carné e Becker – questo “breve incontro” tra una ex-commessa di supermercato al verde e un operaio con problemi di alcolismo rappresenterebbe il canonico primo appuntamento di una serie. In Foglie al vento è invece l’occasione di uno sprigionamento (ansa in finlandese significa trappola). Quando i loro profili vengono retroilluminati dal proiettore, allora l’inquieto Holappa si gira a scrutare Ansa che a sua volta fissa lo schermo, incantata, e sembra che un prodigio di complicità sia sul punto di compiersi: nel silenzio degli sguardi reciproci due persone si libereranno dalla solitudine, da un’emarginazione assordata quotidianamente dai rumori delle fabbriche e dei cantieri di Helsinki (Kaurismäki è, tra le tante cose, anche un formidabile inquadratore dell’alienazione lavorativa, come dimostra da ultimo il corto The Foundry).

Tuttavia, in un mondo oppresso dal precariato esistenziale e dalla guerra, dove radio anacronistiche non riferiscono che angoscianti notizie dal fronte ucraino, persino un innamoramento così semplice subisce ostacoli tristi e improbabili che impediscono a Holappa e Ansa di ritrovarsi – e infatti in quest’avventura proletaria di avvicinamenti e distacchi si mescolano magnificamente la parodia brechtiana della screwball comedy e il ritmo malinconico del tango finlandese, cui Kaurismäki è tanto affezionato da aver dato in originale al film il titolo della versione di Les feuilles mortes cantata da Olavi Virta.

Ma se anche fuori dalla sala cinematografica – secondo il regista «il solo luogo in cui un essere umano possa ancora dirsi libero» – tutto appare ancora subacqueo, vago e irreale, è perché la luce radente e quintessenziale che accompagna gli antieroi di Kaurismäki non cambia mai, pure nei bar avvolti dal fumo e negli appartamenti ridotti al minimo e per le strade è proprio la stessa del Ritz. E insieme a quella luce, assicurata dal sodalizio quarantennale col direttore della fotografia Timo Salminen, ritornano le altre figure strutturali della sua filmografia, almeno da Ombre in paradiso in poi: le esibizioni canore, la presenza canina, la solidarietà tra marginali, i volti di attori già visti, i poster di vecchi film indimenticati, le sigarette, l’alcol, le poche cose che importano davvero.

Foglie al vento conferma l’ispirazione perpetua di Kaurismäki, l’unicità felicemente e fieramente fané del suo stile, dimostrando che la combinazione di burlesco astratto e lirismo al rallentatore gli ha permesso di inventare una poetica (ir)realtà che le assomiglia parecchio ma non coincide del tutto con la nostra. Altrimenti non si spiegherebbe il costo spropositato per i servizi di un Internet café perfettamente funzionante nel 2024 – è l’anno in cui è ambientato il film, fate attenzione a un calendario in secondo piano.

In maniera ancora più esplicita dei film precedenti, anche di quelli che ne condividono direttamente l’umorismo impassibile e la dolcezza straniata (Ariel e Nuvole in viaggio su tutti), Foglie al vento ribadisce la fiducia di un autore – e, vogliamo credere, anche del suo pubblico – nell’umanità del cinema, nell’autonomia delle speranze e delle diaspore che solo la pellicola conosce. È un po’ come se le traversie dei personaggi kaurismäkiani, sempre in bilico tra deriva e rinascita, si svolgessero tutte all’interno di una sala cinematografica. Perciò le loro scelte e i loro gesti rispondono alle esigenze di una messa in scena tanto essenziale quanto irrealistica piuttosto che all’andamento di un’esilissima trama melodrammatica, e spesso puntano al cinema muto.

Così i sentimenti di Ansa e Holappa e la vicendevole ostinazione a non perdersi sono inverati dal campo lungo finale: la ripetizione finnica della scena conclusiva di Tempi moderni, con l’allontanarsi di Charlot e dell’adorata monella verso un orizzonte di favolosa incertezza, è universale proprio perché ricalca un momento che appartiene all’immaginario cinematografico e non alla registrazione documentaristica della vita – d’altronde le due silhouette, anzi tre col cane Chaplin (!), camminano nella direzione opposta a quella dei grossi pezzi di carne che nella prima iperrealistica scena scorrono, inerti e senza futuro, sul nastro di un supermercato.

Anche Foglie al vento ora appartiene a quell’immaginario, cioè a chiunque: il cinema di Kaurismäki ci riguarda tutti.