“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” prega Gesù dalla Croce nel Vangelo di Luca, perdonando e, al tempo stesso, quasi comprendendo e giustificando i suoi assassini. L’uso dei versetti del Vangelo di Luca nel documentario For They Not Know What They Do di Daniel Karslake è tuttavia più ambiguo tanto da sovvertire, nel contesto narrativo a cui dà il titolo, il messaggio di perdono originario. Partendo, infatti, dall’approvazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 2015, il documentario segue la spietata offensiva della destra americana e del fondamentalismo evangelico contro i diritti LGBTQ. Il film costruisce una serrata dialettica tra condanna e riconciliazione, emancipazione e senso di colpa, politica e intimismo svelando la precisa strategia discriminatoria della destra americana mascherata come tutela della Costituzione e delle libertà religiose. Una strategia che, inasprita dall’elezione di Trump alla Casa Bianca, arriva a legittimare la transfobia, nuova frontiera dell’odio, l’attentato al club gay Pulse di Orlando nel giugno 2016 o le terapie riparative per gli omosessuali, spesso fonti di depressione e suicidio. Avendo ascoltato queste storie, non si può proprio dire che questi carnefici non sappiano ciò che fanno.

Dieci anni dopo For the Bible Tells Me So (2008), Karslake ritorna ad occuparsi di fede religiosa e diritti LGBTQ attraverso quattro storie di ragazze e ragazzi omosessuali o transgender che hanno dovuto negoziare identità e orientamento sessuale con la totale osservanza religiosa delle loro famiglie, appartenenti a diverse fedi, etnie e classi sociali. Ryan, figlio gay di genitori profondamente evangelici, discende in una tragica spirale di droga e depressione dopo essersi sottoposto a terapie riparative per la sua omosessualità. Sarah, nata Tim, si afferma come portavoce nazionale per i diritti delle persone transgender, una passione che le fa conoscere l’amore per Andy, anche lui transgender. L’adolescente Elliot affronta la sua transizione, accompagnando i suoi genitori, più che accompagnato da loro, verso il suo nuovo inizio come uomo e come studente universitario. Il portoricano Vico sente l’espiazione come un dovere morale per aver convinto un gruppo di amici ad andare al Pulse proprio nella sera dell’attentato. In questa elaborazione del lutto riceve il pieno supporto dalla sua famiglia, fortemente cattolica, di cui aveva sempre temuto il giudizio.

Tutte queste storie sovvertono la parabola del figliol prodigo: non sono i figli o le figlie a chiedere perdono per quello che la religione del patriarcato percepisce come devianza e a sottomettersi all’etero-normatività. Al contrario, sono i genitori che chiedono perdono: per essere stati complici, nella loro ignoranza, della morte di un figlio, per aver esitato troppo a lasciar andare il maschio o la femmina che avrebbero sempre voluto, per aver chiuso la porta di casa alla rivelazione dell’omosessualità.

La madre di Ryan afferma che, paradossalmente, quello che temeva sarebbe successo al figlio se avesse abbracciato uno stile di vita gay, è avvenuto proprio per il contrario. Sono state le terapie riparative degli evangelici di Exodus International e la repressione del suo orientamento sessuale a spingere il figlio verso l’alcolismo e la dipendenza da stupefacenti. Exodus ha cessato di esistere nel 2013 e Randy Thomas, il suo vice-presidente, chiede perdono nel corso del documentario di Karslake per l’infelicità e le tragedie che ha contribuito a provocare. Come molti dei carnefici pentiti intervistati dal regista, probabilmente, non riuscirà mai lui stesso a perdonarsi. In questo sta la loro laica espiazione perché sapevano quello che stavano facendo.