Co-sceneggiato da Caterina Cavalli, reduce dal successo di Amanda (2022), e dal regista britannico-iraniano Babak Jalali, Fremont racconta, ancora una volta, una storia di immigrazione negli Stati Uniti alla ricerca di un futuro migliore, ma con un bianco e nero asciutto e una scrittura priva di retorica edificante con annessa mobilità sociale.

La protagonista Donya, profuga afghana, dice chiaramente di voler un futuro migliore al suo originale psicanalista che la conduce con bizzarra brutalità a confrontarsi con il suo disturbo da stress post-traumatico. La scelta della ragazza di lavorare come traduttrice per l’esercito americano in Afghanistan è stata dettata unicamente dalla possibilità di avere il visto d’ingresso e il biglietto di sola andata per Fremont, cittadina della Bay Area intorno a San Francisco conosciuta anche come Little Kabul per l’alto numero di profughi afghani che vi abitano.

Arrivata negli Stati Uniti, Donya si ritrova, quindi, all’interno di quella stessa comunità etnica che aveva immaginato di lasciarsi alle spalle. Un pensiero, quello di aver lasciato la propria famiglia, che non la fa dormire la notte e che la paralizza emotivamente portandola a confessare il suo bisogno di vivere un sogno solo in uno dei messaggi che scrive per i biscotti della fortuna.

Fremont mette in scena la dialettica tra identità etnica e cultura nazionale fin dai titoli di testa, che scorrono su una piccola catena di montaggio in una minuscola fabbrica di biscotti della fortuna. Nella fabbrica, oltre ad una centenaria signora cinese incaricata di scrivere i messaggi da inserire nei biscotti, lavorano l’afghana Donya e l’americana Joanna mentre i proprietari sono immigrati cinesi di seconda generazione che sono ormai entrati nella società americana, anche se, in parte, come oggetti esotici. Donya ha scelto questo lavoro perchè la porta fuori dalla Little Kabul di Fremont, viaggiando fino alla Chinatown di San Francisco, dove campeggia un murale di Bruce Lee come testimonianza di orgoglio etnico.

Pur non essendo perseguitati dagli stessi sensi di colpa di Donya, gli altri personaggi del film ne condividono la medesima paralisi emotiva che Jalali e Cavalli iscrivono trasversalmente alle condizioni di etnia, classe e genere nella società americana. La collega Joanna colleziona appuntamenti al buio per trovare qualcuno con cui convivere per dividere le spese, in una mercificazione dei sentimenti che adotta come rimedio per una sessualità che, probabilmente, la spaventa. I proprietari cinesi sembrano ormai incapaci di comunicare tra loro e di guardarsi negli occhi nell’agiatezza di un letto enorme.

Lo stesso psicanalista trattiene a stento le lacrime in una seduta con Donya in cui le legge un passo da Zanna Bianca di Jack London, la sua storia di immigrazione preferita. Una citazione letteraria che, richiamando il determinismo naturalista del romanzo e il suicidio del suo autore nonostante il finale successo editoriale, rinforza l’idea di un mondo senza via d’uscita dal torpore emotivo, a cui, tuttavia, Donya cerca di non rassegnarsi. La decisione della ragazza di mettersi in viaggio on the road, come nella migliore tradizione americana, può essere il preludio ad un risveglio dall’insonnia o porterà all’ennesima delusione?

Oltre all’eleganza formale di una regia e di una scrittura sobrie ed essenziali, il film deve la sua riuscita all’interpretazione, controllata e straniante allo stesso tempo, di tutto il cast, ad iniziare proprio dalla protagonista Anaita Wali Zada, esordiente che condivide con il suo personaggio lo status di rifugiata.