In Full time la Parigi da cartolina non trova e non deve trovare posto: la tour Eiffel è solo un brutto quadro in una camera d’albergo. Le corse parigine, impresse nella memoria cinefila e collettiva come simboli di leggerezza e liberazione, sono sostituite da un movimento violento e circolare, che trascina la protagonista Julie (Laure Calamy) da un impegno all’altro nelle sue giornate frenetiche. L’equilibrio precario di questa vita esplode con lo sciopero dei trasporti, ispirato al grande sciopero del ‘95 e a quello, più recente, iniziato alla fine del 2019 e frenato solo dall’epidemia. Sia chiaro: lo sciopero evidenzia i problemi di un sistema alienante e non viene mai condannato nemmeno dalla protagonista.
La corsa di Julie è quella dell’incubo dagli obiettivi tanto nitidi quanto incomprensibili. Per rendere questa atmosfera Gravel, miglior regista a Venezia (Orizzonti), sceglie un montaggio da film d’azione o di supereroi. Il tono è decisamente diverso rispetto al suo lungometraggio d’esordio (Crash Test Aglaé, 2017) più umoristico e surreale. Differenza di tono, non di temi: il regista ritorna sulla condizione lavorativa delle donne e sull’insensatezza del sistema capitalistico e produttivo.
Oltre al ritmo risulta molto efficace la colonna sonora di Irène Drésel che accompagna il crescendo di tensione. Gravel voleva recuperare sonorità della musica elettronica anni Settanta e le tracce ricordano l’ossessività di alcuni temi argentiani, ma anche del Morricone di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Musica e montaggio avvolgono, e sconvolgono, un “pedinamento” neorealista con la camera che sin dalle prime inquadrature stabilisce un contatto profondo con la pelle della protagonista, su cui si incidono progressivamente i segni dell’ansia e della tensione.
L’interpretazione di Laure Calamy, miglior attrice a Venezia, è tanto potente quanto anti-tragica. Le aspirazioni lavorative, le richieste dei figli piccoli, la violenza delle colleghe, la perenne segreteria telefonica dell’invisibile ex-marito, tutto viene accolto, sommerso ed emerge in delle piccole crepe. Julie dev’essere invisibile al lavoro, ma vuole riconquistare un posto che le spetta. Vuole lavorare a Parigi e vivere fuori città. Nel suo slancio non ha il tempo di fermarsi e finisce per essere trascinata come un automa da un impegno all’altro fra mille mezzi di trasporto.
Così la festa del figlio è dolce e brutale nella sua immersione in questa frenesia: l’amore di Julie c’è, rispetto alla crudeltà di un padre assente, ma è sempre più inglobato nella spinta inconscia della corsa. Fine. Si ritorna nel tritacarne parigino. Il volto accoglie ancora, subisce, si incrina, fino al pianto finale. Liberatorio, certo, ma che non dà libertà, come il volo sulla giostra le cui braccia lanciano e trattengono, sollevano e salvano nello stesso tempo. La drammaticità di Julie sta nella sua impossibilità e incapacità di interrogarsi sulla radice del suo movimento. Ma Gravel non giudica la protagonista, piuttosto denuncia la realtà sociale ed economica che la spinge ad abitare fuori Parigi, la attira nuovamente verso il centro e gioca con i desideri della classe media.
La complessità della denuncia emerge dal confronto con un cortometraggio di Walter Salles e Daniela Thomas, Loin du 16e, episodio di Paris je t’aime (2006). Sono molte le somiglianze con Full time: la sveglia che suona all’alba, una donna sola e costretta a lasciare il figlio per andare al lavoro, la corsa sui trasporti fino al 16o arrondissement, quartiere alto borghese, dove la protagonista deve accudire per lavoro il figlio di altri. Ma la differenza è significativa: Salles e Thomas mostravano una madre e un figlio separati dalla necessità, mentre Gravel si interroga sulle ambizioni e le contraddizioni che costringono la classe media ad una quotidianità frenetica. Ma si può vivere al ritmo di un thriller?
Forse la tour Eiffel non è solo un quadro, una cartolina, ma un simbolo più attraente e spaventoso, la radice dell’incubo in cui Julie corre, massacrandosi, senza capire.