Immancabile al Future Film Festival una riflessione sulla Disney. E grazie a Floyd Norman: An Animated Life, molti generi audiovisivi si incrociano e intercettano l’immaginario della Casa dell’animazione per eccellenza.

Floyd Norman: An Animated Life appartiene ad almeno tre filoni. Il primo, palese, è quello dei documentari sul cinema, ultimamente alquanto prospero. Il protagonista, infatti, è il primo animatore afroamericano assunto dalla Disney negli anni Cinquanta, poi impegnato nella realizzazione di classici come La bella addormentata nel bosco, La carica dei 101 e Il libro della giungla.

Di conseguenza, si evincono gli altri due filoni. Uno è quello della mitologia disneyana, che lo Studio sta sviluppando in un momento di rinascita commerciale, tecnologica e mitopoietica. Si osservi come, accanto agli ottimi blockbuster (Frozen, Zootropolis) e ai recenti remake-revival (da Maleficient a La bella e la bestia), siano apparsi anche documentari storico-celebrativi (Il risveglio della magia) e biopic romanzati (Saving Mr. Banks), ma anche un importante doc su una eccezionale fruizione dei film (Life, Animated).

Sono tutti lavori, appoggiati dall’azienda, che lavorano nella e sulla nostalgia e intendono trasmettere l’immagine idealizzata di un’arcadia di operosi visionari tesi alla costruzione di un immaginario incantato. Inoltre, e qui c’è il terzo filone, il film mette in luce il valore di un’azienda che, prima delle grandi battaglie degli anni Sessanta, mette a contratto un disegnatore nero. Poiché Norman, uscito dalla Disney dopo la morte di Walt, ha lasciato il segno come produttore militante assieme al socio Leo Sullivan, il doc si potrebbe inserire nella tendenza “black” che, negli ultimi tempi, sta ripercorrendo la storia parallela – e spesso nascosta – della comunità afroamericana.

Tuttavia, a differenza di lavori come 13th o I Am Not Your Negro, qui siamo più nei paraggi di Il diritto di contare, cioè in quel tipo di racconto in cui le conquiste dei neri sono favorite dalle azioni di alcuni bianchi illuminati. Quando parlano dei tardi riconoscimenti elargiti a Norman (primo artista nero ad entrare nella Wall of Fame disneyana), l’ex moglie e Sullivan, intervistati insieme ad una pletora di amici e colleghi, sostengono appunto che egli sia stato usato per dichiarare la vocazione liberal di un’azienda da anni alle prese con le voci attorno ai presunti razzismo e antisemitismo del tycoon Walt.

Pur con qualche concessione all’operazione agiografica, emerge il ritratto di un uomo davvero singolare, dal curriculum sterminato (Disney, Hannah-Barbera, Ruby-Spears, Film Roman, Pixar, Reel FX), gioviale quanto segretamente tormentato, amareggiato da un pensionamento considerato prematuro e ormai assurto ad icona dello Studio, sorta di vecchio saggio ascoltato e stimato perché ultimo sopravvissuto della generazione cresciuta con gli insegnamenti dei leggendari “nine old men”.