Prima di approdare con Diamantino, alla co-regia di un lungometraggio, l’enfant prodige Gabriel Abrantes aveva già alle spalle una ricca produzione, iniziata con una serie di cortometraggi di pochi minuti e proseguita con narrazioni man mano più articolate e più ampie. Ripercorrendo a ritroso i lavori del regista portoghese naturalizzato negli USA, si può vedere come l’ironia mordace di Diamantino, espressione di una satira sociale e politica che esplode in un ribaltamento visionario e fantasmagorico dei luoghi comuni e delle derive reazionarie contemporanee, non sia altro che la summa di una poetica assai consolidata. Fin dalle prime opere - pillole di anarchico nonsense a metà strada tra video essay deliranti e cinema narrativo – Abrantes aveva abituato il suo pubblico ad aspettarsi da ogni suo lavoro un’indagine iconoclasta e una riflessione personalissima volta non solo a scandalizzare lo spettatore, quanto piuttosto a stimolarne lo spirito critico e le capacità associative.
Chi abbia visto Diamantino può riscontrare come quello di Abrantes sia un cinema simultaneamente politico e pop – o meglio che utilizza volutamente determinate figure e linguaggi pop per scardinarli – e che nonostante l’apparenza naïf sia fortemente strutturato, poggiando sull’ampia e trasversale cultura del regista, che emerge chiaramente nei lavori precedenti. I primissimi cortometraggi sono suggestioni quasi astratte, provocazioni tragicomiche caratterizzate spesso da una sessualità esibita senza riserve e a tratti iperbolica, nei quali Abrantes e i suoi colleghi rileggono in chiave post moderna opere d’arte classica o si lasciano andare a digressioni paradossali.
Se in Dear God Please Save Me ascoltiamo i monologhi interiori di una paleontologa, una “donna molto intellettuale dell’America Vittoriana” che prima di suicidarsi trascina con sé e poi seppellisce in una capsula del tempo i suoi oggetti più preziosi, in Razor Thin Definition of Punk Abrantes e i suoi amici si divertono a dileggiare un articolo del Rolling Stone che pretendeva di datare con esattezza la nascita e la morte della musica punk, mentre in Olympia I e II ci viene mostrato un dittico fatto di ribaltamenti dei ruoli canonici di genere e di classe all’interno di scandalosi psicodrammi che reinventano il celebre quadro di Manet. Abrantes tornerà spesso a sondare in maniera ironica e dissacrante grandi opere o grandi artisti, come in Taprobana, dove assistiamo alle avventure dello scrittore Luís Vaz de Camões, eroe bohémien e artista viaggiatore ante litteram vissuto nel 1600, che soffre un perenne conflitto tra la ricerca del sublime, la smisurata ambizione e i bisogni più carnali, o in A Brief History of Princess X, dove la voice over del regista ci conduce alla scoperta dei “ferventi spiriti” che animarono il panorama artistico e scientifico europeo dei primi del ‘900.
Mantenendo come registro stilistico il mashup di generi cinematografici, gli inserti onirici e la formulazione di racconti strutturati a scatole cinesi come ne Le mille e una notte o il Decameron, Abrantes e i colleghi (a volte i corti e i mediometraggi sono in co – regia con Daniel Schmidt e Benjamin Crotty) si rifanno tanto all’uso pasoliniano dei corpi nella Trilogia della vita quanto alla torsione semantica e l’accostamento di suggestioni eterogenee di Kenneth Anger, mantenendo sempre una lucida consapevolezza politica, dettata dalla celebre frase di Godard “ogni singola inquadratura è una questione morale”. In tal modo nella rivisitazione del mélo in chiave “terzomondista” di Liberdade, Abrantes e Crotty girano la storia d’amore tra una ricca ragazza cinese e l’africano Liberdade, ambientata nella capitale angolana Luanda, dove i due registi ci mostrano simultaneamente un paesaggio straziato e i residui di bellezza che gli innamorati riescono a ritagliarsi. Mentre Ennui Ennui è la reinvenzione grottesca e immaginifica della guerra in Afghanistan, nel mediometraggio Palácios de Pena, girato in co – regia con Daniel Schmidt (con cui girerà anche Diamantino) assistiamo alla battaglia tra due cugine per ereditare l’enorme palazzo della defunta nonna, che le porterà a scoprire il passato fascista della loro famiglia in una riflessione sull’eredità del male e sul passato colonialista dell’alta borghesia portoghese.
Ma è con l’ultimo cortometraggio di Abrantes, Os Humores Artificiais, che viene scandagliata la tematica del Candido, tramite la storia del coming of age del romantico robot Andy Coughman, che sfugge dalla scienziata che lo ha inventato e sta tentando di riprogrammarlo per tornare dalla sua amata umana Jo. Tale rivisitazione è anche alla base di Diamantino, dove Abrantes e Schmidt reinterpretano le figure note dei “semplici” puri di spirito come Zoolander e Forrest Gump, per la loro inversione comica della parabola bressoniana di Au hasard Balthazar. Pur avendo addomesticato il suo linguaggio caustico per intercettare un pubblico più ampio, Abrantes continua a risultare interessante nel suo utilizzo di figure di riferimento dell’immaginario popolare, per cui il calciatore Diamantino Matamouros (Carloto Cotta) è un sosia di Cristiano Ronaldo. Impareggiabile talento del calcio, sfruttato dalle sorelle prepotenti e succhia soldi, Diamantino vive i suoi anni di fama e gloria nella totale inconsapevolezza, fino al momento in cui il suo talento si eclissa improvvisamente. Simultaneamente a questa fase critica, il calciatore scoprirà l’esistenza di un mondo al di fuori del calcio e deciderà di adottare un giovane rifugiato per dare un senso alla sua vita. Da quel momento si avvia una folle commedia degli equivoci con inserti di spy story transgender, e l’ingenuo calciatore deve fronteggiare l’intero partito dell’estrema destra sovranista portoghese che ha messo in moto alle sue spalle un complesso piano malefico…
In sostanza quello di Abrantes è un cinema colto ma mai autoreferenziale, stratificato nei suoi spunti ma al contempo ironico e di intrattenimento. Tutti i lavori da lui realizzati fin’ora riescono a completare la quadratura del cerchio creando un quasi impossibile equilibrio tra citazioni cinematografiche e letterarie, derivate dalla cultura popolare come dagli archetipi del teatro greco. Tale equilibrio è raggiunto grazie alla sfrontatezza del regista, che non negando e anzi sottolineando la drammaticità dello scenario socio politico contemporaneo, riesce comunque a mostrarci delle favole post moderne quasi sempre a lieto fine.
PS.: Bibliografia di riferimento: Catalogo 2017 Sicilia Queer Filmfest