La camera indugia sugli interni di una casa abbandonata, in balia di una bufera che sta arrivando. Le imposte frustate dal vento e la radio - che annuncia al vuoto l’imminente tempesta - ci raccontano di una partenza improvvisa. Uno stacco sul nero ci riporta indietro, alla storia che si snoda con un lungo flashback per poi ricollegarsi circolarmente all’inizio. Roy Cady lavora ai margini della legalità, per un gangster di New Orleans. Il giorno in cui un medico gli mostra le lastre dei suoi polmoni, lasciandolo senza speranze, accetta la proposta del suo capo per un ultimo lavoro, che in realtà si rivela essere un agguato per ucciderlo. Dopo una sanguinosa sparatoria Roy riesce a fuggire, miracolosamente illeso, portandosi dietro Rocky, una giovanissima prostituta sopravvissuta allo scontro.

Galveston, il film diretto da Mélanie Laurent e tratto dall’omonimo romanzo di Nic Pizzolatto, inizia con una scena analettica dominata da due elementi narrativi che ricorrono fino alla fine: la tempesta e la casa vuota diventano così allegoria sia di temi affrontati nel film, la minaccia e l’abbandono, sia di un’atmosfera incombente che promette solo guai e solitudine.

Da subito il film risulta molto fedele al romanzo da cui è tratto: la sceneggiatura è stata infatti scritta a due mani dallo stesso Nic Pizzolatto - romanziere, sceneggiatore e produttore televisivo statunitense, diventato famoso come creatore della serie televisiva True Detective - e da Mélanie Laurent - attrice, regista e cantante francese, indimenticabile Shosanna in Bastardi senza gloria di Tarantino. Nei credits però non troviamo il nome di Pizzolatto che, probabilmente non soddisfatto dal risultato finale, firma la sceneggiatura con lo pseudonimo Jim Hammett.

Pur non conoscendo le ragioni del mancato riconoscersi dell’autore nella trasposizione filmica, di certo possiamo percepire il rischio legato alla scommessa dei produttori, che hanno scelto di far raccontare questa sorta di hard boiled sull’America più profonda e derelitta ad una nota e affermata attrice e autrice francese, appassionata di arte. Ma, al di là delle distanze che Pizzolatto ha preso dal film, la scommessa di fondo non è persa perché Laurent riesce a confezionare un film riuscito, al netto di qualche aspetto che forse non riesce pienamente a governare.

Intanto non possiamo negare un’estrema cura formale, evidente ad esempio nelle ricercate inquadrature. A quelle scure e claustrofobiche degli interni fanno da contrasto quelle luminose della fuga on the road, puntellata di grandi spazi aperti, che siano aridi deserti da percorrere in macchina o distese di acqua che lavano via le colpe. Il tutto sottolineato dalla incisiva e iperrealista fotografia di Arnaud Potier, che evidenzia alcuni passaggi del film saturando i colori in modo molto efficace.

La stessa esperienza di Laurent come attrice le dà poi forse modo di dirigere con estrema consapevolezza i due attori principali, Ben Foster ed Elle Fanning, che donano al film due ottime prove attoriali. Ben Foster - dopo le riuscite interpretazioni nei new western Hostiles di Scott Cooper e Hell or High Water di David Mackenzie - torna a frequentare le atmosfere da cowboy dannato. Questa volta è Roy, sicario in fuga tra la Louisiana e il Texas, stritolato in una corsa contro il tempo, in cui la vera pena forse non è perdere la vita ma conservarla. Elle Fanning - che negli ultimi anni ha lavorato con registi del calibro di Winding Refn (The Neon Demon) e Sofia Coppola (Somewhere, L'inganno) per approdare all’ultimo Woody Allen (Un giorno di pioggia a New York) - regala la sua diafana bellezza a Rocky, una prostituta quasi bambina, abitata da una spaesata giovinezza.

La regia di Mélanie Laurent riesce a rendere fedelmente i ritratti dei due protagonisti, anche laddove decide di non avvalersi della sceneggiatura, come ad esempio nella scena dell’appuntamento tra Roy e Rocky, presente nel romanzo ma girata completamente senza dialoghi. In una sorta di fuga elevata all’ennesima potenza - quando Roy e Rocky, ormai braccati, cercano di scappare non solo dai propri inseguitori ma anche da loro stessi - lui decide di invitarla ad uscire. Un vero e allo stesso tempo finto appuntamento romantico, in cui l’amore non ha nemmeno la speranza di essere immaginato: in un impolverato locale del Texas, i pochi presenti fissano questa strana e impacciata coppia, formata da uno stropicciato e malaticcio quarantenne e da una bambina cresciuta troppo in fretta, avvolta in un magnetico vestito rosso sangue. Dapprima paralizzati dall’imbarazzo e dalla mancata abitudine alla felicità, i due si sciolgono pian piano in un indimenticabile ballo, fatto di tenerezza, di faticosi sorrisi, di sguardi complici e di orizzonti impossibili. Mélanie Laurent riesce insomma a creare un momento intenso e sospeso, rendendo in pochi minuti tutta la tensione di amore e morte che scorre sotto traccia al romanzo. Una tensione carsica che Pizzolatto volutamente trattiene a livello sotterraneo ma che invece la Laurent libera con coraggio e con un lirismo inaspettato e struggente.

Sta qui forse il valore aggiunto della regia: nel dare voce, corpo e immagine a quello che Pizzolatto non ha scritto. Nel complesso però Laurent dà la sensazione di non osare fino in fondo in questa direzione e di peccare proprio di eccessiva corrispondenza col testo narrativo, senza fornire il contraltare di una lettura sempre personale e convincente. L’attenzione all’esatto susseguirsi degli eventi, alla corrispondenza dei personaggi, alla precisione estetica e formale, il timore di perdersi nei tanti rivoli in cui le vicende a volte paiono dissanguarsi o la paura di sprofondare in quelle paludi della Louisiana che Pizzolatto porta dentro le parole, sono tutti elementi che espongono la regia al rischio di perdere quella patina sporca, fatta di fango e nichilismo, che è forma e contenuto di questa storia.

Se la realizzazione filmica - come diceva Stanley Kubrick riguardo al complesso rapporto tra parola e film - non è altro che la continuazione della scrittura, allora Mélanie Laurent col suo Galveston forse si trova proprio ad affrontare questo delicatissimo e difficilissimo snodo creativo e artistico, regalandoci un film riuscito ma a corrente alternata.