Il cinema è questione di sguardi. Fra i personaggi che compongono un film si sviluppa, lo sappiamo bene, una conversazione incessante di punti di vista che si annodano e si snodano, coinvolgendosi e chiamandosi in causa. Il regista, supremo orchestratore di sguardi, intrecciando il suo con quello dei personaggi  sceglie i punti di vista, li coordina, apre alle possibilità che questi possano suggerire interpretazioni e nuove direzioni di senso, sceglie insomma come farli deflagrare nella narrazione, dove porre la sua attenzione, quali valorizzare, come farceli incontrare: sì perché l’ultimo sguardo, l’ultimo punto di vista è il nostro, quello dello spettatore che quegli sguardi deve sostenere, accettarne il peso, per poi seguirli nel corso del film, fino a portarseli dentro, quando il film finisce (se finisce davvero).


Di sguardi liminari, che ci accompagnano sulla soglia di attimi decisivi, sguardi che cercano e vorrebbero farsi carico della complessità del mondo, è intessuto da sempre, tutto il cinema di Eastwood. Nuovamente e in maniera sempre più radicale, di sguardi si parla anche in questo suo straordinario lavoro, un’opera pervasa da una tensione morale lancinante.

Ce ne rendiamo conto immediatamente, fin dall’apertura del film, dove ci viene mostrata una statua della dea bendata, con la spada e la bilancia, simbolo supremo di giustizia, che non deve vedere per essere giusta e poter colpire in modo netto. Non deve vedere per poter giudicare: tanto pesa lo sguardo, inteso come la sintesi del coinvolgimento supremo con l’altro che dunque può offuscare la lucidità e la nettezza del giudizio.

Ma gli occhi bendati hanno anche un altro significato, richiamano infatti la fiducia, la possibilità di sentirsi rassicurati ad esempio da un sistema giuridico (“il migliore possibile” si ripetono gli avvocanti nel film quasi a volersi convincere) o la quieta serenità del potersi abbandonare fra le braccia di qualcuno.


Significato ribadito dal regista subito in avvio, appena dopo aver inquadrato il simbolo della giustizia viene mostrata infatti la moglie del protagonista bendata, accompagnata dal marito in una stanza che lui ha appena sistemato e finito di arredare: è la stanza della figlia che stanno aspettando, lei infatti è incinta,  ma senza la possibilità di fare alcuna fatica a causa di una gravidanza a rischio, dopo un drammatico aborto subito, i cui segni indelebili e mai completamente riassorbiti, la coppia porta ancora addosso.

Tu sei perfetto” gli dice lei, sicura e protetta dall’amore di lui: “proteggerò la nostra famiglia” dirà lui, più avanti, a ribadire il senso di protezione di un nucleo familiare che si vorrebbe impenetrabile ad ogni difficoltà, quasi al di sopra di ogni morale. Il film sia apre dunque con un due sguardi privati della possibilità di vedere. Con due sguardi, muti e sconvolgenti invece si chiuderà.

La vicenda ruota attorno ad un processo per l’omicidio di una donna, trovata morta in un burrone, dove si presume il suo assalitore l’abbia buttata. Ad essere accusato è il suo compagno, una figura di uomo violento e tutt’altro che amorevole, si direbbe osservando i flashback che ci raccontano di come sia andata quella serata fatidica. Una giuria, della quale fa parte anche Justin Kemp il nostro protagonista, è dunque chiamata, sulla base dei fatti e delle non moltissime prove raccolte, ad emettere un giudizio di colpevolezza o assoluzione.

Buona parte del film si sviluppa nella sala dove i giurati dovranno confrontarsi, in un ideale e metaforico deflagrarsi di punti di vista che si rivelerà da subito piuttosto complesso. Ogni giurato infatti ha la propria storia, un proprio modo di intendere e di vedere il mondo e dunque anche di leggere i fatti, che parrebbero, per come sono stati raccolti, dover portare naturalmente verso una sentenza di colpevolezza. Justin (un Nicholas Hoult in una prova di disarmante maturità attoriale) capisce subito di essere molto più che un giurato, comprende infatti di essere stato un involontario ma decisivo protagonista proprio nella tragica vicenda che dovrebbe giudicare.

Il suo diventa così uno sguardo coinvolto, interno agli eventi, e noi con lui ci troviamo a dover reggere il peso morale di un percorso decisionale che dovrebbe portare alla condanna di un personaggio abbietto e tuttavia innocente o alla disponibilità del protagonista, una figura di uomo positiva, dolce e pieno di cure e attenzioni verso la moglie, di accettare la responsabilità di un evento tragico il cui disvelamento lo porterebbe a rovinare per sempre la sua vita e quella della sua famiglia.

Gli snodi problematici sono diversi e Eastwood li squaderna senza infingimenti, senza falsa retorica, mostrando tutta l’ambiguità del dibattito attorno alla colpevolezza, che procede fra giurati che cercano un senso di rivalsa personale, appassionati di programmi True Crime che procedono per stereotipi e statistiche, giurati che non vedono l’ora di tornarsene a casa dai figli e Justin, che non vorrebbe condannare ma non può far assolvere. Così in quell’intrecciarsi spinoso e delicatissimo di verità e giustizia il film si avvia ad un epilogo amarissimo, che lascia una sensazione di quiete angosciosa, di gioia strozzata, come di una felicità che viene costruendosi su una menzogna.

C’è però ad attraversare tutta la vicenda, il personaggio di Faith (Toni Colette, che attrice straordinaria!), l’avvocato d’accusa del processo, la prima a spingere per la colpevolezza dell’imputato senza troppi riguardi per le sfumature poco chiare della vicenda, senza farsi troppe domande, scegliendo in qualche modo di non vedere, diremmo riallacciandoci a quanto detto preliminarmente, perché è così che deve andare ed è così che conviene a tutti che vada, anche a lei, che vuole usare questa vicenda per rendere ancora più solida la sua posizione politica nelle prossime elezioni.

Tuttavia il ragionevole dubbio si insinua in Faith, perché ad un certo punto nella vita di ogni essere umano c’è sempre la possibilità di fare la cosa giusta, di questo Clint, ormai lo sappiamo, ne è convinto, la sua fiducia nella capacità dell’uomo di poter fare la differenza al momento giusto è inscalfibile e francamente, con una filmografia alle spalle di spaventosa qualità, possiamo dire sempre più commovente.


Così sul finale, fra Faith e Justin, assistiamo ad uno scambio di sguardi, muti, senza parole, occhi che adesso vedono e che portano dentro un grido lancinante e non pronunciato (“Solo gli occhi sono ancora in grado di gettare un grido” vorremmo dire con le parole René Char), un bisogno di verità che viene dal profondo e che smuove le coscienze, anche e soprattutto dello spettatore.
Uno scambio di sguardi, che avviene su una soglia, volti che si squadrano, vibranti ma immobili, in un vedersi decisivo ma come raggelato. Non viene attraversata da nessuno dei due, la soglia, perché quella, sembra volerci suggerire il regista, è una responsabilità di cui si deve fare carico lo spettatore. La parola che non viene detta, tocca a noi pronunciarla.

Con questo incredibile atto di sospensione e coinvolgimento, questo lucidissimo novantaquattrenne, con una fiducia quasi spiazzante verso lo spettatore, in qualche modo ci chiede di partecipare alla decisione finale. Non si può più restare a guardare, l’ineludibile complessità del mondo richiede un aumento del senso di responsabilità, un impegno in prima persona da parte di ognuno di noi.
Chiamati in causa, come sempre nel suo cinema (“un cinema che ci riguarda” come ricorda il centratissimo sottotitolo del bel volume che Adriano Piccardi ha dedicato a Eastwood nel 2012) ma forse mai come in questo caso ci vede coinvolti e lasciati soli ad attraversare quella porta, a dire quello che è necessario dire, a fare quello è giusto fare.

Con la semplicità di una messa in scena rigorosa e asciutta, dove ogni inquadratura e ogni dialogo sembrano essere nati esattamente per occupare quel posto, per durare quei secondi, per esistere in quel modo solamente, Clint ci chiama all’azione, ci vuole attenti, pronti a dubitare, a ricercare in maniera appassionata e indomabile le verità del mondo, ci vuole sull’aereo con Sully, sul quel treno alle 15:17, ci vuole in carcere con Mandela o al fianco di Maggie fino alla fine, vuole che restiamo sia in macchina con Dave ma anche fuori, con Sean, in definitiva, qui, ci vuole davanti a quel portone, sulla soglia di uno sguardo che assume su di sé le sorti di una morale possibile.