Anaïs è sempre di corsa e sempre in ritardo, dal pagare l'affitto alla padrona di casa al finire gli studi universitari. Si smarca appena può da ogni impegno o seccatura: lavoretti che ha accettato, gravidanze indesiderate, financo possibili incendi nel suo appartamento. Come dichiara apertamente, ha scelto la leggerezza come meccanismo di difesa dalle difficoltà della vita e, come confessa in una lettera mai spedita alla madre morente, è la volontà di non soffrire a renderla egoista. Quando inizia una relazione con un più maturo editore, quasi solamente perché è capitato sul suo cammino, si accorge di essere in realtà più interessata a sua moglie, percepita come una sorta di versione di se stessa “da grande”. E che per lei possa valere la pena soffermarsi un attimo.

Per il suo esordio del lungometraggio, dopo il corto Pauline Enslaved che tanto successo ha riscosso nei festival, Charline Bourgeois-Tacquet (classe 1986) scrive e dirige la storia di una sua quasi coetanea. Lo fa con una certa tentazione di onnicomprensività e qualche indecisione sulla strada da prendere: Gli amori di Anaïs riprende inizialmente gli stilemi di certa commedia sofisticata francese sulla borghesia intellettuale, non tanto interessata alla verosimiglianza psicologica quanto piuttosto alla brillantezza e all'originalità dello snodarsi della trama – qui incentrata sul triangolo fra una ragazza e una coppia sposata di mezz'età, dove ognuno dei tre ha un interesse sentimentale negli altri due.

Poi però, dopo l'incontro di Anaïs con la sensibilità viscerale e trattenuta della Émilie di Valeria Bruni Tedeschi, la storia si trasforma per molti versi in un dramma sentimentale, di quelli attenti a raccontare con finezza e pudore gli elementi minimi di costruzione e trasformazione di un rapporto. Un cinema non più di jump cut e corse a perdifiato, ma di dettagli di sguardi e corpi, di riprese a mano ravvicinate e tremolanti per raccontare il riconoscimento fra anime, il rispecchiamento di sé, la delicatezza e il desiderio di un tocco.

Ci sono tanti ottimi elementi e allo stesso tempo un po' troppe cose ne Gli amori di Anaïs. Un sentore della Catherine di Jules e Jim, un richiamo alle relazioni complicate di Éric Rohmer e anche qualcosa a cui tanto cinema e tanta serialità contemporanei sembrano – vivaddio – parecchio interessati: la rappresentazione di una non-compiacenza femminile che può farsi anche sgradevolezza, e che dà mostra di sé senza chiedere scusa e con un realismo scevro da tentazioni pedagogiche, privo di sanzioni nefaste da parte della trama.

Nel confronto però ad esempio con la sua omologa norvegese Julie del recente La persona peggiore del mondo, con cui condivide la svagatezza amorosa, l'irresolutezza negli studi e persino lo stesso impiego provvisorio come commessa in libreria, Anaïs sembra più artificiosa, più programmatica, meno capace di suggerire la tragedia esistenziale quotidiana del trovare se stessi e il proprio posto nel mondo.

Se però Anaïs riesce a smarcarsi definitivamente dall'apparire una risposta impenitente dei millennial ai peggiori pregiudizi dei boomer è anche molto grazie all'interpretazione di Anaïs Demoustier. Lanciatissima nel cinema d'Oltralpe (solo negli ultimi anni l'abbiamo vista in Alice e il sindaco, La ragazza con il braccialetto e Gloria Mundi), Demoustier dona al suo personaggio non solo i suoi capelli lucenti e il suo corpo seduttivo, ma anche il magnetismo scenico di una profondità e obliquità di sguardo che non si fanno dimenticare.