La storia è semplice e lineare, gli sviluppi un po’ meno: a Los Angeles vive e vegeta Sam, patetico voyeur che ama contemplare bellezze in bikini e la cui routine quotidiana è scandita dai meccanici amplessi con la ragazza. In seguito alla scomparsa di Sarah, la bella vicina bionda di cui il protagonista è ossessionato, si mette in moto una complessa investigazione che scoperchia i segreti di una metropoli e del suo sottobosco infetto. Cosa succede quando si assiste alla saturazione di un immaginario condiviso in un film volutamente citazionista? Accade il più delle volte che un’esondazione iconica sgretoli l’unità strutturale dell’opera, che seppellisca la visione globale e autoriale in un affastellarsi di suggestioni e vertigini parossistiche.

Non è il caso di Under the Silver Lake di David Robert Mitchell. Poteva essere per l’appunto una caotica “map to the stars” immersa in una fluviale riproposizione di modelli e icone visive, oltre che un vuoto collettore di chincaglierie del passato. La rappresentazione visiva che invece viene fuori da questo film, volutamente sghembo e strampalato, attiene maggiormente al ripensamento della forma-cinema, intesa non come produttrice di dipendenza (iconografica) ossessiva, ma come meditata ri-mediazione di un vasto immaginario, dilatato all’eccesso, fino a ricomprendere, oltre agli abusati anni '80 e '90, anche echi di un passato più lontano e di sicuro più classicheggiante. In Under the Silver Lake tutto è corpo e tutto è simulacro, poiché non vi è discrimine tra realtà e fantasmi, tra i pieni dell’estetica e i vuoti del racconto. L’insieme convive su uno stesso piano di realtà – un immaginario ordinato e ordinabile – che fa del sotto il sopra, del vicino il lontano.

Allora, nella mirabolante caccia al tesoro in una morente Los Angeles seguiamo, grazie ad un emozionante catalogo messo a fuoco con zoom in campi lunghi, la mappa del percorso e iniziamo a unire i puntini tra i richiami sonori agli anni Novanta, i misteri di provincia di un pericoloso sottomondo, le “strade perdute” lynchane, il voyeurismo hitchcockiano (ma anche ozoniano), i dedali surrealisti e gli enigmi di un “pop porno” allucinato. Dobbiamo però intenderci e capire cosa sia in grado di mettere ordine all’interno del convulso immaginario filmato. Tutto ciò che Mitchell condivide con lo spettatore, neofita o smaliziato che sia, è prima di tutto una “misura” umana prima che una sequenza schizofrenica di immagini che gli ruota pericolosamente intorno: la presenza tangibile e vivida di un uomo che sogna e che è in preda agli incubi, un disadattato che usa la pornografia come mezzo trasmissivo di contenuti e generatore di piste che lo aiutano nella detection impossibile, un outsider che occupa quasi sempre la scena; un ragazzo che, masturbandosi fisicamente e mentalmente, determina in modo prevedibile lo svolgersi degli eventi e identifica le tracce da seguire.

Una volta compreso questo lo spettatore può assistere a carte scoperte alla quête di Andrew Garfield, un gioco a incastri strettamente connesso all’immagine ordinata e orientata dal demiurgo-detective. In fin dei conti l’intero film potrebbe essere letto come la morte e la rinascita della cultura pop, il riutilizzo e la rimasticazione di topoi confliggenti tra loro (molto semplicisticamente la querelle classico contro moderno), la rappresentazione per immagini della mercificazione contemporanea e dell’alienazione prodotta dal mercato globalizzato. Per vedere tutto ciò basta lasciarsi guidare dai messaggi subliminali che il regista dissemina nel film – come fa Pollicino con le briciole di pane –  stando bene attenti a non commettere l’errore di non perdersi dentro questo labirinto. Abbandonare la via maestra è infatti l’unica soluzione possibile per ritrovarsi.