Tre modi per leggere Gli infedeli. Il primo è noioso: il senso dell’operazione è del tutto interno alla logica di un servizio (Netflix) che per il suo catalogo di film originali – al di là dei tre o quattro omaggi annuali al cinema come Dio comanda, diciamo da Scorsese in giù – ragiona per modelli e schemi da usato sicuro. Il secondo è autoreferenziale: il film di Stefano Mordini rinnova – o rinnoverebbe – la tradizione della commedia all’italiana raccontando la realtà contemporanea secondo quella lente deformata e deformante tipica dei maestri del genere. Il terzo è pretenzioso: ma no, ragazzi, non è una commedia, è un dramma che usa il filtro della commedia grottesca per osservare la tragedia del maschio contemporaneo. Nessuno ha la verità in mano, figuriamoci quando parliamo di film.
Da queste parti c’è della perplessità: perché proporre il remake di una (peraltro poco interessante) commedia francese del 2012 che a sua volta è un cripto-remake di una qualunque commedia italiana a episodi degli anni Sessanta e Settanta? Perché questo accomodarsi sulla falsariga di una scopiazzatura straniera ci appare una dichiarazione di snobismo perfino mestamente provinciale? E non si tratta di ostilità nei confronti dei remake: il recente Cambio tutto, riuscito o meno non importa, si basa su un’idea non originale ma solida, trasversale rispetto alle nazioni (chiamiamolo “modello Colorado”). Dov’è l’idea solida de Gli infedeli? Per fare la commedia ci vuole coraggio, per (ri)fare quella all’italiana anche di più: bene, dov’è l’Italia de Gli infedeli? E, soprattutto, a quale pubblico parla?
L’impressione è che, per narrare le miserie di un popolo attraverso il tradimento, la confezione elegantissima e quasi noir sia il modo con cui Mordini esprime vergogna per ciò che racconta, sovrastando con la forma (bella, buona? Sì ma a che pro?) un mondo fatto di personaggi verso i quali ostenta un malcelato disprezzo. È lo stesso metodo scelto da Riccardo Scamarcio, deus ex machina dell’operazione, che da anni combatte per farsi perdonare la colpa primigenia d’esser stato divo amato dalle ragazzine. Come tutti coloro esplosi come sex symbol, Scamarcio – in realtà interprete ombroso e maturo da almeno un decennio, pensiamo al sottostimato L’uomo nero – provvede a picconare la propria immagine virile. Qui la struttura frammentaria gli permette trasformazioni fisiche che ne mettono in luce aspetti meno affascinanti, come nel caso dell’episodio della gita aziendale (cover pecoreccia di “Una giornata decisiva” da I complessi), dove sfodera denti con diastema, sopracciglia con peluria, panzetta.
Gli infedeli dimostra l’impossibilità di fare una commedia di costume alla maniera italiana. Ne nega lo spirito, inserendosi tutto sommato sulla scia della commedia alla Perfetti sconosciuti (borghese, romana, un po’ isterica, ipocrita ma, signora, che bella confezione), ma quel che peggio è che sostituisce il moralismo con l’ironia, cercando la lettura teorica per (auto)giustificare la presunta ferocia. Condanna il narcisismo del maschio contemporaneo più per conformismo che per profondità di riflessione e respinge lo spettro delle risate per la paura di apparire compiaciuti complici della volgarità.
In fondo il problema è nei totem: Mordini e Scamarcio hanno guardato a Marco Ferreri (agli occhi della cinefilia più à la page è il più presentabile degli autori del filone: il frammento del “buco” con Valerio Mastandrea pelato bagna il naso a “L’uomo dei cinque palloni” poi Break-up), eppure avrebbero dovuto buttare un occhio anche a sketch meno celebrati come “Scandaloso” da Alta infedeltà, “Luciana” da La mia signora, “Cocaina di domenica” da Controsesso. E invece siamo ancora qui pigramente accomodati sulla superficie del monumentale I mostri senza avere un briciolo della suprema perfidia iconoclasta di Dino Risi. Un Sessomatto senza festa, un Vedo nudo evanescente, questo Gli infedeli: così di Risi avaro.