1917 di Sam Mendes inscena un minuscolo frammento della Grande Guerra, niente più che uno scorcio su uno dei conflitti più immani della storia dell’uomo. Quello che ha troncato definitivamente i legami con la strategia militare dei secoli precedenti, spalancando le porte alla modernità e ad una nuova modalità di raffigurazione dello scontro bellico.  Una differente concezione che venne prontamente intercettata dal nascente linguaggio cinematografico, impostosi come metodo di narrazione d’avanguardia grazie alla sua natura frammentaria, dinamica e diffusa. Il cinema di guerra nasce così come sinonimo di montaggio frenetico ed alternanza di punti di vista ad altezza d’uomo, rapportati in modo da fornire una visione esaustiva dell’azione. È su questa area che il regista britannico sceglie di intervenire con il suo ultimo lavoro, riproponendo la Prima Guerra Mondiale attraverso uno spunto inedito: non solamente immerso nel mare delle trincee, ma anche in perfetta continuità temporale con gli avvenimenti che si rincorrono sullo schermo.

La tecnica iperrealistica del piano sequenza, esasperata in due atti distinti tramite celati interventi di montaggio fino a sorreggere il film per la sua intera durata, costituiva già nelle premesse l’elemento più ardito di un’operazione produttivamente ambiziosa. Un’espediente che tramite l’ossessivo pedinamento del protagonista (il soldato William Schofield di George MacKay) si propone di adeguare lo sguardo dello spettatore al brutale contesto, imbevendolo del senso di pericolo seminato fin dalle primissime fasi.

Dopo un breve esordio -  unicamente interessato ad impostare le mosse successive -  l’azione viene innescata, scandita dal timer della colonna sonora che accompagna l’ingresso dei personaggi nella terra di nessuno. La macchina da presa li scruta ossessivamente in un moto quasi perenne; il suo occhio si affianca talvolta a quello dello stesso Schofield, ma per lo più ne contempla il volto, lasciando agli effetti del fuoricampo il compito di colmare lo spazio non intercettato dall’inquadratura. In questo modo 1917 neutralizza il canonico senso di spaesamento e terrore espanso, per focalizzarsi su una microstoria che si propone di essere un denso concentrato di terrore bellico.

La ricerca di una pressoché totale aderenza agli stati percettivi del protagonista punta ad investire ogni suo gesto di un significato ampio che abbracci i temi sempiterni del coraggio e del dovere, eppure il percorso tracciato da Mendes resta sempre un passo indietro rispetto alla concretizzazione del proprio ideale. Contrariamente al ricercato fenomeno di assorbimento spettatoriale, la scarnificazione del background dei personaggi manca l’obiettivo di elevarli a figure archetipiche e portatrici di valori universali, ottenendo invece il risultato opposto di relegare le loro azioni ad una circoscritta, seppur avvincente, lotta per la sopravvivenza.

Oltre al senso di responsabilità e  all’apatico legame istituzionale nei confronti di figure con la medesima divisa, cos’altro emerge da questo flusso inarrestabile di immagini? La risposta va probabilmente rintracciata nelle parole pronunciate in chiusura dal colonello Mackenzie di Benedict Cumberbatch: “There is only one way this war ends. Last man standing.” Se ciò che muove la turbolenta avanzata di Schofield è la fedeltà al proprio incarico, la consegna di un messaggio che può significare la salvezza per un gran numero di commilitoni, ciò che infine prevale è un atavico e disperato attaccamento alla vita da parte del singolo. Sentimento preponderante nel quale però si fatica terribilmente ad individuare la complessità di elementi necessaria a renderlo qualcosa di più che un gelido processo di resistenza alla morte.

Come nella sua precedente incursione nel war movie con la sortita irachena di Jarhead (2005), Mendes predilige una fulgida chiave estetizzante a cui però non viene concessa un’altrettanto ricercata pregnanza discorsiva che possa concedere al racconto una maggiore stratificazione di significati. Ragion per cui 1917 finisce per risultare niente più che il tenue scorcio cui si accennava in apertura, incapace di sintetizzare all’interno della propria corsa concitata il senso di straziante perdita generato dalla Grande Guerra. Un perpetuo turbinio di stimoli sensoriali che certamente appagano la sete di intrattenimento giocoso, per poi diradarsi improvvisamente lasciando spazio ad un terreno arido e spoglio quanto la terra devastata del Fronte Occidentale.