In una delle più celebri operette morali Leopardi fa dire alla Natura impersonificata che “la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione”. Nel suo terzo lungometraggio, Hlynur Pálmason fa ricorso più volte al time lapse (tecnica già sperimentata nei film precedenti) per mostrare il lavoro nel tempo della natura sui corpi senza vita. Che sia un cavallo o un essere umano, alla natura matrigna è indifferente.

L'Islanda di Godland è una terra malformata (questa la traduzione dei titoli danesi e islandesi del film), si può sopravvivere solo adattandosi. Per questo il compito affidato al prete danese Lucas di  formare l'umano attraverso la costruzione di una chiesa è destinato al fallimento. Il Dio civilizzato dei cristiani ha spezzato quel dialogo che ancora gli islandesi riescono a intrattenere con la natura. Questo scontro tra Dei si trasforma in uno scontro di civiltà. Scontro che il time lapse finale chiude nel trionfo del Deus sive natura degli islandesi.

Il film è suddiviso in due parti, la prima composta dal faticoso viaggio del missionario verso il luogo di costruzione della chiesa, mentre la seconda dalla vita nella comunità in cui la chiesa viene infine eretta. La prima parte è spezzata da una sequenza in cui una colata di lava sublima il potere distruttivo della natura. Attorno al protagonista ruotano quattro personaggi principali, due percepiti dal missionario come positivi (il traduttore con cui arriva dalla Danimarca e l'oggetto del desiderio Anna) e due come negativi (la guida Ragnar e Carl, padre di Anna) in base alla possibilità di dialogo.

Il missionario danese non sa infatti la lingua islandese, da qui il grande distacco dalla popolazione locale e l'impossibilità di convertirla alla propria fede. Il confronto con Ragnar si trasfigura in una scena di danza che è in realtà una lotta di wrestling e giunge infine a un paradossale scontro finale: il materialista Ragnar si confessa delle proprie colpe, ma ciò porta solo all'emergere della rabbia repressa di Lucas. Proprio quando il linguaggio universale della fede sembra toccare il miscredente Ragnar affiora la natura distruttiva e malformata dell'umano.

Pálmason fonda la narrazione su un motivo finzionale: sette fotografie ritrovate dell'Islanda di metà Ottocento. La missione di Lucas è anche quella di immortalare il paesaggio naturale e umano dell'isola, al tempo sotto protettorato danese. Ma l'attrezzatura si rivela un peso, il paesaggio troppo inospitale non solo da attraversare ma anche da essere immobilizzato dalla fotografia. Le lunghe esposizioni necessarie ai tempi per catturare le immagini impongono ai soggetti ritratti di rimanere fermi. Ma così come questi soggetti rifiutano di essere soggiogati dalla parola della fede cristiana, così si rifiutano di essere asserviti alla macchina fotografica. Piuttosto preferiscono la performance come la scena di Anna con il cavallo.

Il montaggio cinematografico rivela attraverso una serie di quadretti ironici à la Roy Andersson la silente tragedia dietro la produzione di immagini e con ciò l'impotenza della fotografia rispetto al cinema. Dal viaggio alla costruzione della chiesa passando per la produzione di immagini, ogni azione di Lucas appare vana e senza grazia. Il Dio civilizzato sta in silenzio, come in un film di Bergman, mentre quello della natura continua “il perpetuo circuito di produzione e distruzione”.