Nel 1987 Hellraiser mostrò un volto nuovo dell’horror, una “nuova carne” che sarebbe stata data in pasto, oltre che ai supplizianti, custodi delle più remote sfere dell’esperienza, anche a tutto un filone cinematografico body horror che è continuato fino al recente Titane.

Tuttavia, sarebbe davvero riduttivo circoscrivere l’incubo polisemico e proteiforme di Clive Barker in un unico genere, tanto più che non ha avuto bisogno di molto tempo per diventare un cult, e non solo nella cerchia degli appassionati. Hellraiser è soprattutto uno psicodramma sessuale in famiglia che sfrutta i codici estetici e stilistici dell’horror, ma anche la matrice concettuale che era già insita nel Cronenberg di Videodrome, di appena quattro anni precedente.

Barker lavora all’adattamento del suo racconto, The Hellbound Heart, creando un’interrelazione esperienziale tra sesso e orrore, amore e morte, amplificando fino all’iperbole quei piaceri della carne e quei supplizi che, a detta dei cenobiti, diventano “insuperabili” e si materializzano in medias res, attraverso un montaggio frenetico, sporcati dalla fotografia pastosa di Robin Vidgeon.

La natura composita del film – bizzarra commistione di elementi prelevati da un immaginario che fonde il cyberpunk e il fantasy, l’horror claustrale e la perversione sadomasochista, il feticismo punk e il neogotico – non può prescindere dall’estro visionario di Clive Barker, “l’anatomista dell’inferno”, come lo definì Wes Craven, colui il quale riuscì a rigettare, grazie anche agli straordinari effetti speciali di Geoff Portass e Peter Watson, l’inferno in terra. Senza la sua immaginazione macabra e le sue visioni ottenebranti, non si sarebbe potuto sprigionare quell’humus culturale e antropologico che ha riassunto un’epoca: quella del punk, dei piercing e dei tatuaggi, della paura dell’Aids.

Gli inferni bakeriani, che devono molto alla temperie anni Ottanta, ravvisano una pericolosa prossimità con il mondo terrestre, allorché la confraternita cenobita proveniente da varchi dimensionali sconosciuti, si manifesta al malcapitato di turno, pronta a far provare un piacere carnale e sessuale che si fonde in modo inestricabile con la sofferenza e il dolore.

Il gesto politico di Cronenberg in Videodrome, critica feroce al controllo mediatico delle masse, viene qui riportato alla natura ferina e selvatica dell’umano, alla matrice individuale del peccato sessuale, facendosi immediatamente rito e diventando una feconda teogonia: indimenticabili sono gli angeli o i demoni supplizianti, su tutti Pinhead, con il volto ricoperto di aghi, e Chatterer, un Cerbero cieco al servizio degli inferi erotici, con la bocca sempre aperta in un ghigno diabolico e i denti che battono senza sosta.

Tragedia domestica esplosa nel più classico dei triangoli amorosi, Hellraiser non accoglie tutti gli stereotipi dell’horror anni Ottanta, perché ad esempio non fa vedere l’uccisione di giovani libidinosi e non mette in campo le mostruosità tipiche del sottobosco animato da letali uomini dei sogni o maschere killer, ma inventa un nuovo modo di spaventare attraverso un climax che diventa iperbole del disgusto e corruzione esasperata del desiderio materiale.

Il film di Clive Barker proietta la forza eversiva di una rivoluzione stilistica e contenutistica: è uno splatter movie che spinge ancora più in là, nelle fredde e malvagie regioni dell’esperienza, l’estetica del ribrezzo di Tsukamoto o Yuzna, riproducendo uno tra i più tremendi gironi infernali cinematografici.