Le proteste scatenate in Iran lo scorso settembre dal caso di Mahsa Amini, morta dopo essere stata arrestata a Teheran per aver indossato impropriamente il hijab, forniscono un contesto attuale al thriller politico-religioso Holy Spider, presentato in concorso al festival di Cannes 2022 e girato in Giordania al riparo della censura iraniana, rendendone la visione un atto necessario.
Il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, si è ispirato all’inquietante storia vera di Saeed Hanaei (già raccontata nel 2003 nel documentario Along Came the Spider di Maziar Bahari), un serial killer che nel 2001 si aggirava indisturbato di notte, in motocicletta, per ripulire le strade della città santa Mashhad dalle prostitute e mettere in atto la sua personalissima jihad contro il genere femminile “per amore di Dio e la tutela della religione”.
Abbasi utilizza i modi e le convenzioni del cinema di genere per disegnare un personaggio controverso, che nel film trova un allarmante grado di simpatia ideologica tra i militanti islamici tanto da essere catapultato allo status di eroe popolare dagli estremisti religiosi. Infatti Hanaei, interpretato dall’ attore iraniano Mehdi Bajestani, non è il classico killer psicopatico alla Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti, ma è un operaio edile, un padre di famiglia, un devoto musulmano sciita e un veterano della guerra Iran-Iraq.
Per narrare le gesta del killer i media locali si spingono nel campo dell’aracnologia, definendo gli omicidi "uccisioni del ragno" a causa del modo in cui le vittime vengono attirate nella casa del killer, soppresse ed avvolte come bozzoli nei loro chador, i lunghi e fluenti indumenti neri che coprono le donne dalla testa ai piedi, uno dei simboli più emblematici della claustrofobica misoginia patriarcale iraniana.
Ma quanto coraggio e quanta potenza c’è nel ruolo della co-protagonista del film, la giornalista reporter Zahara Rahimi, inviata da Teheran a Mashhad per stanare il serial killer che è valso la Palma d'oro a Cannes come miglior interprete femminile all'attrice Zar Amir Ebrahimi? Decisa a fermare a ogni costo l’assassino, dovrà combattere con agenti indisponenti e conniventi, giudici misogini e cittadini la cui morale è intrisa di ciechi indottrinamenti, gettando un raggio di luce sul destino delle donne iraniane. I canoni della detection story trovano forma in una strategia investigativa che si mescola con le istanze di libertà della protagonista, che afferma in prima persona il diritto delle donne ad avere piena cittadinanza nel mondo.
Abbasi, virando prospettiva rispetto al suo precedente film horror Shelley (2016) e al fantasy Borden - Creature di confine, vincitore del premio Un certain regard nel 2018, si addentra in un thriller che scoperchia il vaso di pandora, mostrando senza mezzi termini il fondamentalismo religioso che permea un sistema sociale misogino e maschilista a tratti complice con il “ragno santo”. Il film di Abassi che nella drammaturgia non nasconde l’ammirazione per il cineasta coreano Boog Joon-ho ed il suo capolavoro Memorie di un assassino, ha una mise-en-scène realistica e a tratti onirica.
L'ambientazione e lo stile di ripresa rinforzano il senso di desolazione che affiora sin dalle prime sequenze, mentre gli esterni in notturna rievocano l’estetica da noir con uno smaccato uso del contrasto chiaroscurale delle luci nella fotografia di Nadim Carlsen. La colonna sonora atmosferica grunge-elettronica del compositore danese Martin Dirkov impreziosisce il film e insinuandosi magistralmente nella diegesi anticipa le gesta del “ragno santo” esaltando, nell’incedere dei fotogrammi sullo schermo, la folle missione divina di cui l’assassino si sente investito.
È giusto rendere merito ad un film che pur trattando un tema crudo e angosciante riesce a tratteggiare una eroina contemporanea fonte di empowerment femminile, mantenendone intatti gli aspetti più sensibili e vulnerabili.