Hugo Cabret è la trasposizione cinematografica del libro di Brian Selznick, La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (2007), un’opera che sta a metà tra il romanzo e la graphic novel, da queste tavole in bianco e nero nasce l’omaggio di Martin Scorsese a uno dei pionieri della storia del cinema, Georges Méliès.

I disegni di Selznick, meravigliose ombre malinconiche, fanno da eco ai ricordi di Méliès che continuano a riaffiorare tra i giocattoli esposti in un chiosco nella Gare de Montparnasse, un luogo affollato e caotico nel quale i balocchi variopinti, muti custodi di un passato glorioso, restano l’ultima espressione concreta dei fasti della fantasia fuori controllo dell’anziano cineasta/giocattolaio. I trucchi di Méliès sono stati svelati, è svanita l’aura di mistero e di magia con cui si erano nutrite le opere di questo illusionista prestato al cinema; a un certo punto lo spettatore ha voluto vedere l’anima dei giocattoli mélièsiani e, riportando le parole di Baudelaire, come “il bambino volta e rivolta il suo giocattolo, lo gratta, lo sbatte contro le pareti, lo butta a terra (…) infine lo apre, è lui il più forte. Ma dov’è l’anima? È qui che cominciano l’inebetimento e la tristezza”. (Charles Baudelaire, Morale del giocattolo in Opere, Milano 2012)

Hugo Cabret è anche la storia di un giocattolo rotto, un automa disegnatore-scrivano molto simile a quello visto da Selznick al Franklin Institute di Philadelphia, questo prodigio del genio umano di cui inizialmente si ignora la provenienza, dopo essere stato aggiustato disegna ben quattro soggetti diversi e scrive tre poesie, lo scrivano infine firma con il nome del suo creatore, Maillardet (Henri) capostipite di una nota dinastia di automatisti. Hugo, giovane protagonista del libro, nel film interpretato da Asa Butterfield, ruba gli ingranaggi dei giocattoli di Méliès (un bravissimo Ben Kingsley), per rimettere in funzione l’automa lasciatogli dal padre, morto prematuramente in un incendio. Anche questo corpo artificiale, firma il disegno che realizza con cura certosina, una luna colpita in un occhio dall’obice degli astronauti, con il nome Méliès, forse bastava l’inconfondibile marchio di fabbrica lunare ma si sa che ogni automa è fedele al proprio costruttore.

Se già di per sé l’automa è un oggetto misterioso (non a caso nel film cela il segreto di Méliès), non stupisce la scelta di attribuirgli il sorriso più enigmatico della storia dell’arte, ovvero quello della Gioconda di Leonardo. Questo è forse uno dei pochissimi esempi in cui il sorriso di Monna Lisa (o di chiunque sia) non risulta affetto dalla “giocondolatria” che facilmente sfocia nelle manipolazioni del kitsch, la Gioconda è una fonte inesauribile di kitsch e la decontestualizzazione dell’opera, nel nostro caso solo un dettaglio non del tutto riconoscibile se non viene spiegato, amplifica notevolmente la natura perturbante di questo automa.

In tedesco il termine “Automat” indica anche il distributore automatico a moneta, una macchina che ripete un’azione economicamente utile, gli automat a gettoni, che Walter Benjamin definisce “Penati”, moderne divinità domestiche dei luoghi del consumo, segnano il tramonto dell’automa classico che fin dalle origini non aveva fatto altro che compiere un’azione teatrale fine a se stessa, bastava una chiave che lo caricasse. Il comune destino degli automi e del cinema di Méliès risente dei mutamenti dell’industria dell’intrattenimento, “ci voleva Scorsese, da sempre calato in storie ‘vere’, girate in taxi o su un ring, per riportare davanti ai nostri occhi annoiati di spettatori digitali le meraviglie di un mago antico. Se Scorsese se ne è occupato vuol dire che Méliès è davvero esistito!” (Maurizio Nichetti in La bottega delle illusioni, Georges Méliès e il cinema comico e fantastico francese (1896-1914), Enrico Giacovelli, Milano 2015).