Presentato in questi giorni al festival Human Rights Nights, quello di Keren Shayo è un documentario toccante, che pone su un piedistallo la sua protagonista per la battaglia che coraggiosamente conduce con ragione e cuore. Nel parlare dei tanti eritrei catturati e torturati dai Beduini per poter estorcere un riscatto, Shayo si serve delle esperienze dell’attivista svedese-eritrea Meron Estefanos, la quale attraverso le telefonate del suo programma radiofonico Voices of Eritrean Refugees raccoglie da Stoccolma le storie di queste persone.
Quello che Meron si è data è un compito tanto nobile quanto difficile. Riuscite a immaginare cosa significhi parlare al telefono con qualcuno che di lì a poco probabilmente verrà ucciso e non fa che chiedervi disperatamente aiuto con la voce rotta dal pianto? Meron ci parla tutti i giorni con queste persone. Shayo ci mostra sia quando la donna conquista piccole vittorie figlie della sua tenacia, sia quando si pone degli interrogativi e non riesce a non farsi trasportare dall’afflizione dei suoi interlocutori. Vederla riflettere insieme a noi sul dover comprendere chi alla fine getta la spugna e paga il riscatto rappresenta uno dei momenti più belli della pellicola.
Quando poi Meron andrà in Israele ad incontrare faccia a faccia le persone con le quali negli ultimi due anni ha parlato al telefono, sarà un’occasione per poter vedere coi suoi occhi i risultati del suo lavoro e intervistare dal vivo ex ostaggi. La grande capacità di Meron non sta solo nel saper porre domande col giusto approccio per poter trasformare le disavventure di questi malcapitati in testimonianze da sbattere in faccia a chi ancora si ostina a non crederci. Ma soprattutto nel saper dar loro ciò di cui hanno più bisogno, soprattutto se sei un ragazzo di dodici anni che ha passato gli ultimi mesi tra torture disumane: un abbraccio nel quale sfogare il proprio dolore con un pianto liberatorio. Ecco la ragione e il cuore di cui vi parlavo.
Shayo racconta con partecipazione la storia di Meron e la volontà di farci riflettere in modo costruttivo diventa evidente nel momento in cui quest’ultima dice: “Voglio fermare tutto ciò, vengo da un Paese in cui i diritti degli animali sono rispettati. Se fai male ad un cane in Svezia ti becchi sei mesi di carcere. Se uccidi un gatto tre anni e mezzo. E qui sento persone che vengono torturate ogni ora. E il mondo intero che guarda, senza fare nulla”. Shayo vuole suggerirci che il suono della tortura è sicuramente dato dalle grida di dolore della gente presa in ostaggio, ma il suo eco rimbomba grazie alla nostra indifferenza. Aggiungerei che l’Italia in particolare dovrebbe essere la più sensibile in materia visto ciò che ci ha recentemente ricordato la Corte di Strasburgo.