La puszta, la prateria ungherese a perdita d’occhio, al centro una fortezza bianca e dentro il terrapieno qualche centinaio di prigionieri. La gabbia storica (e metafisica) dei Disperati di Sandór ha coordinate precise: la steppa, puro orizzonte sconfinato, come un deserto d’erba lungo il quale scappare è inutile, perché non esiste un posto in cui nascondersi; unico edificio nel raggio di chilometri, la prigione militare in cui l’esercito austro-ungarico tiene rinchiusi gli ultimi ribelli dei moti del 1848 guidati da Lajos Kossuth, costringendoli in una micidiale catena di tradimenti e ritrattazioni.

Bloccati tra questi due spazi dai contorni indubitabili e immateriali a un tempo, gli uomini di Sandór Rósza, residui sulla pagina del paesaggio di una punteggiatura umana destinata alla cancellazione. La voce narrante sui titoli di testa stabilisce che il film è ambientato in Ungheria in un momento imprecisato degli anni Sessanta dell’Ottocento, ma in trasparenza è 1920, il 1956 o qualunque altro anno nella millenaria storia universale della repressione.

Come accade con Rosi o col primo Costa-Gavras, il cinema politico di Miklós Jancsó ha il potere di ristabilire i rapporti di forza occultati dalla Storia, convertendo episodi anche poco conosciuti della vicenda nazionale ungherese in arcate narrative di assoluto rigore visivo. Alla ricostruzione esplicativa dei fatti subentra una lucida esegesi delle invarianti e delle trappole dei processi contro-rivoluzionari, e in generale della violenza fisica e ancor più psicologica indispensabile agli ordinamenti sociali dell’età moderna.

Questa interpretazione, per quanto allusiva, passa per un metodo di grande intransigenza formale, nonché di impegnativo rinnovamento per un cinema ancorato al realismo socialista come quello est-europeo: il piano sequenza viene elevato a un grado di elaborazione tale da permettere di trasportare il pathos delle scene corali nella desolazione di quelle individuali, e viceversa. Il montaggio interno all’inquadratura, grazie al quale primi piani e campi lunghi convivono nella stessa sequenza, mostra come l’isolamento dei contadini, vittime di rituali di sottomissione che li spingono a denunciarsi a vicenda, sia funzionale a un più ampio programma di atomizzazione delle masse.

Nella messa in scena di Jancsó non c’è però nulla di ideologicamente connotato. È scabra e labirintica, pronta a (e)seguire le vessazioni subite dai prigionieri, le delazioni e i vani tentativi di fuga, gli scatti d’orgoglio che preludono alla morte. Di lancinante empatia la scena in cui alcuni ribelli detenuti in isolamento si gettano dal tetto della fortezza per provare a interrompere la tortura di una delle donne convocate ogni giorno a portare loro il pane – o forse semplicemente per non essere più costretti ad assistere impotenti allo stillicidio quotidiano cui l’Impero li ha condannati.

D’altra parte, questo suicidio collettivo è il vertice della soppressione delle identità cui i contadini sono istigati dal governo e dall’esercito: i movimenti di macchina, mirabili quando circolari, portano dai margini al baricentro dell’inquadratura questi uomini man mano indotti a disconoscere il proprio nome e la causa della rivolta nazionale, o a sostenere di essere qualcun altro senza sapere che nel frattempo è già morto.

Le sequenze più severe rimandano a un penetrante immaginario inquisitorio, debitore di certe fonti pittoriche iberiche, da Zurbarán a Goya. Il tetro girotondo dei cappucci bianchi a punta, gli interrogatori condotti di fianco a cadaveri anonimi dimenticati su pavimenti di terra, le facce nodose tutte solcate da baffi portati come una divisa, si stagliano sul bianco della fortezza con un contrasto drastico e straniante.

Rispetto alla prospettiva sconfinata e alla vuotezza della puszta Jancsó fa risaltare gli elementi architettonici del terrapieno e soprattutto le forche come moniti di una Storia da secoli fondata sulla ‘dannazione’ del potere, per chi lo rifiuta e per chi lo difende. Così l’ultimo spezzone – lo scontro con le fruste tra i reduci della cavalleria ribelle, l’intonazione esaltata del canto patriottico, la ressa stupefatta dopo la lettura del verdetto imperiale che decreta il massacro – riporta tutto il film alla reale estensione della sua volta narrativa: dall’Ottocento ungherese all’intero ventesimo secolo europeo, e oltre.