Se ne accorge anche Amélie Poulain, nonostante sia distratta dall’espressione degli spettatori in sala, il bacio tra Jim e Catherine è disturbato dal passaggio di un insetto, forse una lucciola, che percorre inosservato il vetro della finestra, una minuscola presenza che scompare tra le labbra dei due amanti. L’incontro notturno, estraneo a ogni forma di clandestinità, segue il ritmo della natura fondendosi in essa, un frammento del reale, l’imprevisto incedere della lucciola che può sembrare un’insignificante svista, evoca la luminescenza caratteristica del corteggiamento del lampiride e quel regno animale in cui il gioco crudele dell’attrazione è portatore al tempo stesso di vita e distruzione: “Così, la parata nuziale delle lucciole del Vecchio e del Nuovo Mondo, predisposta per la notte, avviene attraverso la luminescenza colorata e non con i colori abituali visibili di giorno. Il tutto con una certa malizia. La lucciola femmina del genere Photuris risponde ai bagliori del maschio in volo e, dopo una conversazione luminosa, i due amanti si accoppiano. Ma in seguito la femmina imita la sequenza dei lampi di un’altra lucciola del genere Photinus e attrae con l’inganno i maschi, che si posano vicino a lei e si fanno divorare. È chiaro: Lucifero ci mette lo zampinoˮ (Claude Gudin in Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Georges Didi-Huberman, Torino, 2010).
Sullo schermo l’accidentalità, la presenza di un frammento di reale (esemplare è la fastidiosa mosca ne La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer), come in un quadro può esserlo una mosca dipinta, emana “un fetore di reale (e non di verosimiglianza): un fetore di marcio. Tutto quel che tocca diviene l’equivalente di una cosa in decomposizione. L’emozione tattile, di conseguenza, non si identifica più con l’illusione passeggera. Persiste e ci abbandona a un’inquietudine ben più sordida. Tale inquietudine prolifera, ad esempio, in Un chien andalou, sotto forma d’insetti che non sono più un ‘punto nero’, ma una moltitudine; che non stanno più immobili sul bordo dell’immagine, ma brulicano nel suo centro; che non sono più un semplice gioco ottico, ma una ferita tattile, uno stigma aperto nel bel mezzo di una mano contratta" (Georges Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Torino, 2011).
Agli occhi di Jules e Jim, Catherine è la donna regina in cerca di un’attenzione totale, un’ape regina, come la definisce Roché e per restare nel campo dell’entomologia, lo scrittore mette in relazione la morte che la attrae con l’istinto della mantide religiosa e l’impulso naturale di divorare i maschi, dopo o durante l’accoppiamento: “Il suicidio era per lei un essere irresistibile che vi si para innanzi come una mantide religiosa, e vi trascina via”.
La presenza degli insetti, non riguarda solamente le metafore, visto anche l’interesse di Jules per le libellule, una ricerca che sarà pubblicata in un libro, Catherine lo aiuta realizzando i disegni e i grafici che andranno a illustrarlo, perfino la figlia Sabine vi partecipa, accompagnandolo tutti i giorni alle paludi. Quando potrà, Jules, tornerà alla letteratura con un romanzo d’amore e i personaggi saranno gli insetti, una scelta originale nella quale c’è forse un riferimento a Il maleficio della farfalla (1920), di García Lorca, che narra dell’amore impossibile tra uno scarabeo e una farfalla. Tra l’altro l’uscita nelle sale di Jules e Jim è accompagnata dal cortometraggio Vies d’insectes (1961), uno studio sugli accoppiamenti delle libellule, realizzato dal figlio di Roché, Jean-Claude, futuro ornitologo ed esperto di bioacustica. Dragonfly, il Green Porno di Isabella Rossellini, è di là da venire.
La passione entomologica di Jules, come lo sarà per il protagonista de La camera verde (1978), Julien Davenne, il cui rifiuto irrazionale della separazione dalla donna amata nasconde i sintomi di un disturbo patologico, lo vedrà chiudersi in se stesso proiettando il proprio distacco dall’esistenza nell’interesse per la fauna locale, una difesa che lo rende inerte di fronte ai turbamenti dell’animo umano, Le affinità elettive non lo riguardano più.
Catherine mostra a Jim gli insetti e le diverse bestioline cacciate dal marito, la routine quotidiana, simile a quella di un convento, è scandita dalle battute di caccia di un Jules divenuto esperto naturalista, una scelta dettata dalla volontà di stare vicino ad una donna inscindibile dalla natura, in costante ricerca di un ambiente acquatico e in perenne fuga dalla metropoli, inizialmente per raggiungere una casa immersa nella campagna, non molto distante dal mare, in un secondo momento, assieme a Jules, si trasferisce in uno chalet nei pressi del Reno e successivamente in un mulino non lontano da Parigi; quando è in città, si immerge nella Senna e la tragica fine, di lei e di Jim, avverrà in un corso d’acqua. Catherine è fluida e impetuosa come una cascata, nel romanzo la si paragona alla massa d’acqua che viene giù, i mulinelli furiosi che si formano somigliano a Jim e l’allargarsi quieto che segue, a Jules. È una forza della natura, che si manifesta attraverso cataclismi, l’affermazione di Jules mostra per l’ennesima volta il legame indissolubile creatosi con il paesaggio circostante, teatro in cui si esprime questa energia primordiale e prolungamento del corpo di Catherine. La campagna si contrappone alla vita cittadina di Jules e Jim, una natura nella quale, imbattendosi in una bottiglia, una scarpa, una scatola, rinvenire gli ultimi segni della civiltà, tracce disseminate nel bosco che portano alla spiaggia, qui la dimensione acquatica dell’ambiente si fa predominante, Catherine conduce in una natura umida e materna delimitata da corsi d’acqua: “Fecero una gita ad un lago immerso nella nebbia, in fondo a una valle umida e grassa. L’armonia tra loro era completa (…) Il cielo era basso, così basso che li toccava”.
La nebbia avvolge, ripara dal mondo esterno, una protezione transitoria che suggerisce un appagamento compiuto dei sensi: “La nebbia è uterina. Ti protegge. Legioni di esseri umani desidererebbero tornare nell’utero (di chiunque, come diceva Woody Allen). La nebbia ti realizza questo sogno impossibile. Ti concede una felicità amniotica. Hai la sensazione che forse un giorno uscirai dalla vagina e dovrai affrontare il mondo, ma per il momento sei salvo. E siccome la nascita è l’inizio del percorso che ti porterà inesorabilmente alla morte, la nebbia è la garanzia (ahimé virtuale) che alla morte forse non perverrai. Basterebbe fermarsi lì” (Umberto Eco in Nebbia, a cura di Remo Ceserani e U. Eco, Torino, 2009).