Al centro del mosaico multiculturale e multirazziale della Casbah di Algeri, il fuorilegge Pépé (Jean Gabin) è il punto nodale di una rete di relazioni che da lui si dirama in mille direzioni e a lui ritorna con le informazioni sulle molteplici realtà della città: la vita criminale, gli spostamenti della polizia, i movimenti delle donne su cui lui ha messo gli occhi. Rete di sudditi ma anche di complici, la Casbah rappresenta per Pépé un luogo sicuro perché tutti lo proteggono dall’intervento delle forze dell’ordine.

Pépé non è un eroe e non è nemmeno un buono: è “simpatico e inquietante” e dotato di un particolare carisma che attira nella sua sfera d’influenza uomini e donne. Ma questa specie di fortezza è destinata a crollare sotto la pressione del desiderio: l’arrivo di Gabi (Mireille Balin) è il detonatore che fa esplodere la vita di Pépé: d’improvviso la compagna Inès gli appare noiosa, insopportabile, asfissiante e la vita stessa nella Casbah, dove paradossalmente è libero di continuare la sua carriera criminale, diviene per lui una gabbia soffocante. È questo contrasto il tema cardine del film: la dicotomia tra volere e potere, tra libertà e prigionia, tra dentro e fuori, tra realtà e apparenza. A mano a mano che il film procede, diventa infatti sempre più chiaro come sia la stessa personalità di Pépé ad essere scissa in due. In un mondo dominato da personaggi ambigui (l’ispettore Slimane, l’informatore Régis), Pépé non può che incarnare il massimo dell’ambiguità: il merito per il raggiungimento di tale vertice, oltre alla sceneggiatura di Julien Duvivier, Jacques Constant e Henri Jeanson, va attribuito in egual misura al regista e all’interprete.

Giunti alla loro quinta collaborazione, Julien Duvivier e Jean Gabin trovano in Il bandito della Casbah terreno fertile per una complicità professionale che permette loro di esprimere al meglio i propri talenti mettendoli al servizio della storia e del personaggio. Duvivier lascia Gabin libero di esplodere nella sua recitazione al contempo controllatissima e spontanea, che viene ingabbiata da una regia impeccabile proprio come il personaggio di Pépé è ingabbiato dalla sua realtà. L’interpretazione di Gabin diventa sempre più frenetica, incontrollabile: il suo desiderio di uscire investe lo stesso corpo di Pépé, quasi egli volesse infrangere le inquadrature di Duvivier. È sempre il regista a controllare ogni movimento, ogni spazio, ogni respiro, esplorando gli ambienti, più che con i movimenti di macchina, attraverso un uso sapientissimo del montaggio, dei raccordi (specialmente di sguardo) e delle focali, che indirizzano l’attenzione dello spettatore su elementi significativi della messa in scena.

In una struttura così perfetta e quasi claustrofobica, il duello tra regista e interprete si consuma infine sul volto di Gabin, che da un lato si rivela ultimo campo di battaglia tra le due forze interne all’animo di Pépé, dall’altro diviene terreno di pacificazione del conflitto tra regia e recitazione, in cui Duvivier dimostra di sapere tirare fuori dai suoi personaggi, in un atto di poetica fotogenia, la loro anima più nascosta. Prima ancora che a Pépé, pensiamo allo struggente primo piano di Frehel quando canta la nostalgia di Parigi sulle note di Où est-il donc ?.., in una scena che rivela il profondissimo turbamento interiore di un personaggio pure secondario. Ma soprattutto pensiamo a Pépé “sfatto” dalla “bellezza del dolore” alla morte di Pierrot e all’indicibile malinconia di quelle lacrime che rigano il volto del protagonista (stretto tra due sbarre di un cancello, segno di un ineluttabile destino) in un finale che non si può definire in altro modo che straziante.