Un bandito che seduce con ugual successo e disinvoltura una zingara sanguigna e pronta a tutto per il suo uomo, una sofisticata mantenuta d’alto bordo che il ricco e anziano fidanzato riempie di gioielli e un commissario di polizia che, tuttavia, sa che il suo dovere è quello di arrestare l’uomo da cui è attratto.

Le linee narrative de Il bandito della casbah non sono certo scontate per un film, il quarto della lunga collaborazione tra Gabin e Duvivier, datato 1936 e che viene annoverato tra le più significative manifestazioni del “realismo poetico” francese. Certamente, l’attrazione del commissario Slimane per Pepé le Moko, interpretato appunto da Gabin, non è esplicitata verbalmente o fisicamente, ma le labbra e i corpi dei due uomini arrivano quasi a toccarsi in alcuni momenti e i loro dialoghi rivelano una complicità che non dovrebbe caratterizzare il rapporto di chi sta sulle sponde opposte della legge.

Pepé le Moko è, infatti, un ricercato gangster parigino che sfugge alla cattura della polizia francese rifugiandosi insieme ai suoi fedelissimi nel dedalo della casbah di Algeri. Qui è amato dalla gitana Inès e protetto da tutti gli abitanti, anche se non mancano infidi informatori che provocano la cattura dei suoi complici. Il cerchio di Slimane si stringe attorno a Pepé, che è, contemporaneamente, libero di girare per la casbah ma imprigionato nel suo spazio da cui sa di non poter uscire senza evitare l’arresto. L’incontro e l’improvvisa passione tra il malvivente e la bella Gaby risvegliano in Pepé la nostalgia di Parigi e la sua voglia di uscire dal confino sicuro della casbah.

È impossibile non rimanere affascinati da questa figura di malvivente fragile che sogna di ritornare in patria insieme alla donna che ama e questa è un’altra peculiarità non banale del film, anche se largamente condivisa con altri film del “realismo poetico” come Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939), sempre con Gabin: il suo spingerci a empatizzare con un personaggio, che, più che un criminale, sembra un senza terra, e più che dalla polizia, appare essere braccato da un destino incombente.

Sorprendentemente, nel loro storico volume Panorama du film noir américain (1955), Borde e Chaumeton negano che registi come Duvivier e altri autori del “realismo poetico”, che pure vengono accreditati come creatori di un “certo realismo nero”, possano essere collegati ai futuri sviluppi del noir americano proprio per la mancanza di una dimensione onirica e insolita. Citando espressamente, tra gli altri, proprio Il bandito della casbah, i due autori trovano che l’individuazione di un preciso milieu sociale per lo svolgimento dell’azione ponga questi film in una tradizione strettamente realistica.

Tuttavia, diversi elementi evidenziano invece l’onirismo che caratterizza il film di Duvivier: dalla componente metafisica cui si accennava in precedenza (l’uomo braccato dal destino ancor prima che dalla polizia) alla ricostruzione in studio della casbah che la fa apparire subito come uno spettacolo dentro il film, dalle ombre deformate che i personaggi proiettano sui muri della medina a tutta la sequenza che precede l’uscita di Pepé dalla casbah che diventa improvvisamente sfocata anche come fantasia cinematografica.

Nel varcare i confini della casbah i sogni di tutti i personaggi, non solo il sogno di Pepé di libertà a Parigi con la donna di cui è innamorato, diventeranno i loro peggiori incubi, incarnando così un senso di sconfitta generale e di dissoluzione degli ideali del Fronte Popolare francese.