Il braccio violento della legge di William Friedkin esce nel 1971, cinquanta anni fa, e agli Oscar del 1972 conquista ben cinque statuette (miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura e montaggio) portando alla ribalta di pubblico e critica sia il regista che il protagonista, Gene Hackman. Da lì a pochi anni entrambi verranno consacrati all’altare del successo, il primo con il suo L’esorcista (1973) e il secondo con La conversazione di Francis Ford Coppola (1974).

Il film si ispira ad una storia realmente accaduta: la scoperta di un traffico di droga tra Marsiglia e New York, individuato quasi per caso da una coppia di investigatori americani. Gene Hackman, in una delle sue interpretazioni migliori, veste i panni di Jimmy Doyle, un agente dal carattere istintivo e dai modi brutali, col vizio dell’alcol e una passione per le ragazze con gli stivali. Ad accompagnarlo ed assecondarlo nelle sue intuizioni troviamo il collega Buddy Russo, intrepretato dal più riflessivo Roy Scheider. Insieme si metteranno sulle tracce del raffinato ed elegante trafficante francese Alain Charnier (Fernando Rey) che sta per far entrare a New York un grande carico di eroina grazie ad un famoso attore televisivo.

Nel 1971 Friedkin ha alle spalle quattro lungometraggi e cinque documentari che hanno già formato in parte la sua visione e il suo lo stile. “Utilizzo avvenimenti basati su fatti reali - dichiara il regista - come atto di provocazione per realizzare film d’azione”. E infatti in questo caso si ispira al romanzo biografico di Robin Moore, che ricostruisce le vicende dei due poliziotti Eddie Egan, soprannominato Popeye, e Sonny Grosso, detto Cloudy. Il regista prima di iniziare le riprese vuole conoscere personalmente i due agenti e indagarne a fondo le personalità.

Friedkin parte quindi da un fatto realmente accaduto e inizia a raccontarlo attraverso una narrazione piuttosto realistica, fatta di routine lavorative, tensioni fra colleghi, lunghi appostamenti che sembrano condurre a nulla. La New York di questa quotidianità è una protagonista livida e violenta, ripresa soprattutto nella sua vita di strada, dove anonime vetrine fanno da collegamento fra bar frequentati da sbandati e alberghi per malviventi di buon rango. Un teatro urbano in cui si muovono sicuri i due poliziotti, assuefatti ai loro stessi comportamenti aggressivi, come se la violenza fosse un riflesso diretto e inevitabile, l’unico modo di sopravvivere alla criminalità in cui sono immersi. E mentre gli agenti si dividono fra dimesse centrali di polizia, retate e informatori, i narcotrafficanti si muovono tra ville sul mare, cappotti eleganti e meeting di lavoro. Friedkin incrocia quindi vizi e virtù in uno sfacciato chiasmo di etichette sociali, per mostrarci non solo la loro inconsistenza ma anche la loro pericolosità.

Man mano che il racconto della vicenda procede e che i dettagli delle indagini si depositano nella mente di Popeye fino a sopraffarla, il regista si addentra in una dimensione più ossessiva, dove il gioco fra guardie e ladri rischia di perder le sue regole e diventare maniacale. Mentre l’azione si sposta dal centro cittadino verso la periferia, anche il raziocinio di Doyle sembra allontanarsi dall’etica professionale per ritornare all’istinto del cacciatore. “Mi interessa raccontare stati umani al limite della pazzia - ha dichiaro William Friedkin - voglio raccontare momenti estremi, questo sì e «documentare» in un certo senso quello che accade all’animo umano […] è la tensione che si instaura tra qualunque tipo di essere umano costretto a guardarsi le viscere in un momento in cui non ha più schermi”.

La sequenza del poliziotto che cerca di braccare Charnier - in un vero e proprio balletto sulla soglia dei vagoni della metropolitana, in un continuo dentro e fuori le porte - si chiude con la celebre scena del saluto del narcotrafficante che riesce a farla franca. Ma Doyle non si sta muovendo solo fra semplici porte, sta ballando sulla soglia del suo personale baratro, là dove, fra lecito e illecito, fra legge e criminalità, fra ragione e follia, è questione di pochi centimetri, di pochi pensieri, di poche azioni. Ecco allora che quel saluto accennato e beffardo di Charnier attraverso il finestrino della metro sembra diventare, in modo quasi speculare, il saluto di Doyle al mondo reale, il suo entrare in quegli abissi interiori in cui bene e male si confondono paurosamente.

Alla sequenza della metropolitana fa poi seguito quella del cecchino che tenta di uccidere Doyle e del celebre inseguimento in macchina. Un montaggio mozzafiato ci mostra il poliziotto che fende il traffico urbano come un proiettile impazzito, mettendo a repentaglio la vita di passanti e automobilisti (come realmente accadde dal momento che le scene furono girate fra il vero traffico di New York), per poi riuscire ad individuare il sicario della banda e ad ucciderlo con un colpo alla schiena.

Intanto l’ossessione di Popeye non fa altro che aumentare - come quella di un segugio che sente l’odore della preda - alimentata anche dalle prove che i malviventi lasciano alle loro spalle. La stessa ricerca dell’eroina nascosta nella macchina diventa una scommessa contro la ragione e il buon senso: anche dopo aver smontato e sventrato l’auto senza trovare nulla, Doyle non si arrende, fino a quando il collega Buddy confronta il peso della vettura giunta a New York con quello di un modello simile. Indizio che porterà finalmente a recuperare cinquanta chilogrammi di droga nascosta fra le intercapedini delle portiere.

Forte delle proprie intuizioni e sempre più assetato di sangue, Popeye si presenta alla resa dei conti finale in un capannone di periferia, dove la squadra narcotici ha teso una trappola ai malviventi. Qui insegue Charnier dentro alle stanze di un edificio in rovina, prima sparando un colpo che uccide un collega - e diventando di fatto un assassino - e poi perdendosi nel buio, mentre la sua preda scappa. Uno sparo che risuona nell’oscurità chiude il film, lasciando lo spettatore privo di risposte.

“Avevo girato sequenze alternative - dichiarerà Friedkin dopo il montaggio finale - alcune eccessive (Doyle che diventa veramente pazzo), altre consolatorie (Doyle torna al proprio lavoro). Ma quella dove il protagonista sparisce nel buio spiega meglio di ogni altra l’ambiguità dei limiti che la società si impone e la linea grigia, sfumata che separa convinzione e ossessione”.

In realtà Friedkin abituerà i suoi spettatori a tanti altri finali ambigui, come ad esempio nel successivo Vivere e morire a Los Angeles o ancor più in Cruising, ma sulla scelta delle immagini conclusive di Il braccio violento della legge sembra veramente che il regista si giochi non solo la fine di un film ma tanta della sua poetica a venire. Poetica che trova il suo cuore di tenebra nella dualità della natura umana e nella possibilità di contemplare uno spietato faccia a faccia con l’orrore dentro di noi.