A diffidare di un imprenditore che definisce la sua fabbrica “una grande famiglia” e i suoi dipendenti come “i figli che non ha mai avuto” si impara solitamente abbastanza presto, poco dopo l’ingresso nel mondo del lavoro. Eppure Julio Blanco delle Bilance Blanco, affabile, piacione ed elegante cinquantenne che ha ereditato la ditta da suo padre, pare convincerli quasi tutti i suoi di essere davvero buono, come da titolo originale di El buen patrón, Il capo perfetto, di Fernando León de Aranoa.

In effetti, a suon di sorrisi empatici e movenze signorili seduce non poco anche lo spettatore, che fatica ad inquadrarlo fra gli sguardi dubbiosi o preoccupati che rivolge ai dipendenti e la vicinanza amicale quando non fraterna che non esita a dar loro. Sarà per questo che de Aranoa disegna la personalità di Blanco con uno stile che gioca ripetutamente con la messa a fuoco selettiva applicata a persone e oggetti, e mette in bella vista sul viso del suo magnetico personaggio centrale un importante paio di occhiali, strumento attraverso cui guarda oltre a sé -dall’alto, dal basso, meno spesso diritto- e gli altri a lui.

L’equilibrio e l’equanimità che paiono muoverlo in ogni circostanza, pubblica e privata, ai quali dichiara di ambire assieme all’eccellenza delle sue bilance sono a loro volta definiti da inquadrature simmetriche e pulite, il suo sguardo sul mondo: della produzione, della vita dei dipendenti, delle relazioni con loro e fra loro. Pesi e contrappesi, problemi e soluzioni, compromessi quotidiani e micro-vittorie o micro-sconfitte a seguire.

In palio, però, nella settimana lavorativa che il film esplora a cadenza giornaliera, in un crescendo musicale e di eventi, l’importante premio proprio all’eccellenza che una commissione sta per assegnare a una di tre ditte contendenti, fra cui quella di Blanco che si prepara ad accogliere in sede chi lo giudicherà idoneo o meno a vincere. Maggior impegno nel blandire i dipendenti e più attenzione a possibili passi falsi? No, in realtà. Perché la settimana è speciale solo per la visita degli ispettori, e non per guai o imprevisti capaci di alterare l’equilibrio del padrone. Non che manchino grattacapi di rilievo per Blanco, fra capi settore in crisi coniugale, rischiose relazioni fra colleghi, stagiste di lewinskiana memoria e soprattutto proteste eclatanti di un ex dipendente licenziato, ma il capo è perfetto proprio perché in grado di gestire tutto come amministrazione ordinaria di persone, casi e minacce. Se necessario, anche di escrementi.

Vien quasi da capirlo il povero Blanco, ostacolato da ogni dove nella sua tensione all’obiettivo, tanto è preso e coinvolto, giorno e notte, nelle disavventure che piombano da ogni lato. Eppure la struttura del film è solo apparentemente un climax dettato dall’approssimarsi del premio, e molto più, indossando gli occhiali di Blanco, un circolo (settimanale) che svela destini segnati e nature disumane, lasciando qualche dubbio sulle reali intenzioni dell’autore.

Beffardo e divertente senz’altro, indignado il giusto, consapevole del diverso marcio della vecchia e della nuova generazione di lavoratori e del valore del tutto smarrito di “competenza acquisita”. Però anche stranamente rassegnato alla logica del capitale che chiaramente respinge: se è evidente il disinteresse a confezionare un film alla Ken Loach, e va benissimo, resta oscuro il discorso che davvero gli sta a cuore. Quanto sia difficile giudicare chi comanda? Forse. Dirci che i manager sono capaci letteralmente di qualsiasi cosa? Lo sapevamo già, purtroppo.