L’incredibile successo di una commedia romantica con protagonisti due volti emergenti del cinema americano, quali Sidney Sweeney e Glen Powell, ha animato il dibattito nelle ultime settimane. Tutti tranne te di Will Gluck è uscito sotto Natale negli Stati Uniti registrando appena 6 milioni al botteghino nel primo weekend, ma di settimana in settimana è cresciuto grazie al passaparola. Il  film ha poi superato grandi cifre in tutto il mondo, Italia compresa.

Un successo inaspettato per un genere a basso budget che negli ultimi anni è stato fagocitato dalle piattaforme. Critici e analisti delle più diverse testate hanno evidenziato la proattività di Sweeney (anche produttrice esecutiva) nel condividere materiale del film, delle semplici ma efficaci strategie di marketing e del ruolo fondamentale di Tik Tok nella creazione di contenuti virali.

Certo tutti questi elementi, insieme alla chimica creata tra i due attori protagonisti, sono da tenere in considerazione nell’analisi di questo caso, ma vorrei entrare nel merito del contenuto del film, della qualità che il pubblico incontra dopo essere stato invogliato dalla pubblicità e che è poi la variabile indipendente che permette a un film di circolare e crescere grazie all’entusiasmo con cui viene consigliato ad altri spettatori.

Partendo dal presupposto che la commedia romantica è un genere che non permette particolare originalità, poiché la narrazione deve passare da una serie di stazioni fondamentali (l’incomprensione, il confronto, la riappacificazione), gli elementi su cui lavorare creativamente sono i personaggi e il setting. Costruendo personaggi ben caratterizzati le dinamiche si animano e si diversificano, e qui è la caratterizzazione di Sidney Sweeney a trascinare con sé il pubblico: Bea è una ragazza sui trent’anni che ha appena deciso di lasciare la scuola di legge, rimettendo in discussione tutta la sua vita, e al tempo stesso di lasciare il fidanzatino con cui era insieme dall’adolescenza, con cui già aveva pianificato un matrimonio che sognava sin da bambina.

È una millennial che ha sempre vissuto nel comfort di una vita decisa a priori, che ha preservato il desiderio di completare tutte le tappe canoniche dell’affermazione sociale sotto la benedizione dei genitori, gioviali e invadenti al tempo stesso, e d’improvviso comprende che tutto quello che stava pianificando in realtà non le piace. Il profondo senso di colpa con cui cerca di convivere con questa scelta scomoda esplode in faccia all’inconsapevole Ben, un coprotagonista decisamente più piatto di lei, che comunque vive nel ricordo di una passata storia d’amore finita male e nel senso di rivalsa che gli da condurre una vita da donnaiolo. Profondamente insoddisfatto anche lui.

Questi presupposti semplici ma densi interagiscono in un setting surreale: i due prima si incontrano casualmente, scatta una scintilla “da film”, poi arriva l’incomprensione, la decisione chiudere violentemente con l’altro e infine la convivenza forzata, in una casa da sogno in Australia, proprio in occasione del matrimonio della sorella di Bea.

La forzatura del setting controbilancia in maniera inaspettatamente funzionale la pesantezza delle loro paure, che non hanno modo di essere elaborate perché i protagonisti sono troppo intenti a mostrarsi forti, risolti, felici e a giostrarsi nelle situazioni più improbabili che danno spazio a gag ridicole, a volte trash, giocate su estremizzazioni e macchiette, ma che accettiamo perché funzionali alla tensione della storia tra fingere ed essere sé stessi.

Credo che il film sia riuscito a farsi amare dal pubblico proprio perché offre uno spontaneo premio di riconoscimento per le problematiche delle nuove generazioni sotto alcuni strati di muscoli addominali e sorrisi smielati.