L’uscita nelle sale di Capri-Revolution, l’ultimo film di Mario Martone, dopo la tiepida accoglienza ricevuta al festival di Venezia, rischia di essere offuscata dal cinepanettone di turno, sempre di moda, e dai tentativi, fallimentari, di disneyana memoria. Forse in una stagione diversa il richiamo della brezza marina avrebbe di certo favorito la visione dell’ultimo capitolo della filmografia di un regista che rischia di risultare pretenzioso e sibillino, quando invece sarebbe più opportuno leggere tra le righe i nobili intenti celati da continui rimandi a un passato non ideale ma idealista, lontano e attuale allo stesso tempo.

“Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte (…) e quando miro quegli ancor piú senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia (…) al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo?”. Riportare alcuni frammenti della lirica leopardiana, La ginestra, non vuole essere un inutile e forbito cut-up, di dubbia efficacia, ma solo ricordare il finale, da antologia se teniamo conto delle difficoltà connesse al soggetto, de Il giovane favoloso (2014), nel quale Giacomo Leopardi/Elio Germano, assorto in contemplazione della volta celeste giunge alla funerea apparizione delle rovine dell’estinta Pompei sulle quali aleggia un senso struggente di solitudine. In Capri-Revolution questa desolazione interiore che non lasciava scampo e che attanagliava l’esistenza del Leopardi martoniano sembra fare spazio a qualche barlume di speranza nonostante il sentore di presagi apocalittici. La Grande Guerra è alle porte e il film è disseminato di richiami allegorici derivati dalla tradizione romantica ottocentesca incarnati nella figura di Seybu, artista e sciamano nella comune da lui creata a Capri agli inizi del Novecento.

Sicuramente Seybu è un elemento chiave del film soprattutto per delineare meglio il personaggio di Lucia, giovane capraia ribelle, travolta dall’incontro di una personalità affascinante e contraddittoria come è quella dell’artista tedesco che si ispira in parte al pittore Karl Wilhelm Diefenbach, animatore della comune caprese nella realtà, e in parte a Joseph Beuys, sciamano anch’egli ma dell’arte contemporanea della seconda metà del Novecento. Cominciamo da Diefenbach, soprannominato ironicamente dalla stampa dell’epoca “Kohlrabi-Apostel” ovvero apostolo rapa, la pianta del nomignolo è un riferimento alla pratica del vegetarianesimo, una scelta drastica, inusuale sul finire dell’Ottocento, parte di una serie di precetti seguiti dai suoi discepoli che professavano un pacifismo estremo in cui il ritorno alla natura, imprescindibile l’abbandono della vita agiata e borghese, li portava a perseguire un’esistenza appartata e ispirata dalla presenza del divino, lontana da ogni lusso rinnegando una società industrializzata e militarista.

Martone rappresenta la vita della comune, i riti e le numerose attività ricreative che ne scandiscono le giornate tra danze dionisiache e improvvisazioni musicali, ma di Diefenbach non vediamo nemmeno un quadro. Per intenderci la sua opera è profondamente influenzata da Arnold Böcklin, al quale renderà omaggio con una rivisitazione de L’isola dei morti, la pittura nel film è stata assimilata dal paesaggio roccioso così presente nelle sue tele dove scorci della Grotta Azzurra e scogli impervi sono popolati da ondine ed efebi. Attraverso una serie di tableaux vivants il regista ci restituisce l’energia ancestrale di questo simbolista e nel momento in cui, finalmente, lo vediamo veramente all’opera realizza un ready made che sembra uscito da una mostra di Joseph Beuys, (è evidente che Seybu è un anagramma di Beuys), siamo nel 1914, l’energia elettrica è appena arrivata sull’isola, basta solo collegarla alla materia organica innestando una lampadina su un limone ed ecco Capri-Batterie (1985). 

Capri-Batterie tra l’altro doveva essere il titolo iniziale del film, modificato in un secondo momento quando il riferimento a Beuys si è spostato su un’altra opera, l’immagine del manifesto della prima personale dell’artista tedesco a Napoli dal titolo La rivoluzione siamo noi  (1971), organizzata dal gallerista Lucio Amelio, grazie al quale, nel 1980, avverrà lo storico incontro tra Beuys e Andy Warhol. In questa fotografia Beuys è immortalato mentre percorre il viale della residenza anacaprese di Casa Orlandi, lo slogan dell’esposizione riassume la sua poetica, l’arte come scienza della libertà in quanto rappresentazione del potere della creatività nella società contemporanea. Influenzato come lo stesso Diefenbach, dall’insegnamento di Rudolph Steiner, teorico e fondatore della Società Antroposofica, dalla tradizione romantica e dall’Idealismo tedesco, Beuys sostiene che ogni uomo sia un artista, confidando nell’autodeterminazione individuale che sfocia nell’impegno nel cambiamento della struttura sociale, l’arte come azione politica e l’impulso artistico come unico garante della libertà.

La connessione tra un limone, rappresentazione simbolica della vitalità della natura, e una lampadina, emblema della civiltà e del progresso, il materiale naturale e l’elemento umano dal quale scaturisce una nuova energia, trovano nel film un parallelo tra il legame irrisolto di Lucia e Seybu. Due esistenze mosse dalla ricerca dell’indipendenza, la tensione di questa unione provoca un cortocircuito che porta Lucia ad affermare la propria libertà rifiutando un’esistenza prestabilita all’interno di una società ideologica e patriarcale.

Ma in Capri-Revolution ci sono altri riferimenti all’opera di Beuys, nei quali ritrovare il suo profondo legame con il territorio partenopeo, il terremoto dell’Irpinia diviene un’occasione dolorosa ma necessaria in cui portare in campo/galleria l’esperienza di numerosi artisti, come, tra i tanti, Andy Warhol, Jannis Kounellis, Robert Mapplethorpe, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e ovviamente anche Beuys, una risposta alla violenza della natura e un modo per rilanciare la cultura della città di Napoli e dalla regione. La collezione dal titolo Terrae Motus, che richiama le tragedie di Ercolano e Pompei, è stata filmata da Martone nel documentario Lucio Amelio/Terrae Motus, girato nel 1993 che ha come protagonista lo stesso gallerista, una lunga intervista durante la quale si alternano interventi di Paladino, Longobardi etc., il tutto accompagnato dall’esplorazione diretta della cinepresa sulle superfici delle opere eseguite per il progetto Terrae Motus. Terremoto in Palazzo (1981) è sicuramente una delle opere più significative, Beuys poggia le gambe di alcuni tavoli, rinvenuti nelle zone terremotate, su dei vasi di vetro, disponendone sopra altri di terracotta in equilibrio precario: “Ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa, nel suo sentimento, nella sua volontà”. (Beuys, Alcune richieste e domande sul Palazzo nella testa umana, 1981). Le anfore collocate tra gli alberi da Seybu/Beuys, registrano le scosse sull’isola di Capri e sono una chiara allusione all’instabilità del Palazzo, la forza creativa dell’arte plasmata dall’energia primordiale della natura diviene premonizione di una tragedia e nel film dell’allontamento di Lucia.

Ogni film di Martone è mosso da un trauma, una tragica morte, un lutto iniziale e iniziatico, come lo è per Lucia la morte del padre, commiato doloroso che scatena una ricerca, così evidente ne L’amore molesto (1995). La natura è la spettatrice privilegiata di questo terremoto interiore, nonostante si tenti di domarla e di controllarne la dirompente forza. “Tengo ’o cardillo”, risponde un uomo che viaggia con un cardellino in gabbia alla richiesta di andare a combattere in Noi credevamo (2010), l’uccello addomesticato è appartenuto alla moglie, e come nella novella di Luigi Pirandello Il gatto, un cardellino e le stelle, la personificazione di una perdita spinge il protagonista ad elevarla quale oggetto di venerazione.

La difesa della Natura, pensiero che scorre in tutta l’opera di Beuys, non è altro che guardare a un miglioramento ponendosi come parte integrante dell’insieme naturale; un altro cardellino compare nella scena finale di Capri-Revolution, e lo stesso accade ne Il giovane favoloso, Leopardi si reca da un sarto che ne tiene un esemplare sul bancone: “Il canto del vostro cardellino sembra un riso. Non è mirabile come l’uomo sappia ridere infelice com’è?”, si chiede il poeta, “Per fortuna a volte gli uomini sanno dimenticare se stessi”, gli risponde il sarto.

Amelio, filosofo solitario, “stando una mattina di primavera, cò suoi libri (…) scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare (…) pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono”. (…) “Siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita”. (Leopardi, Elogio degli uccelli in Operette morali, 1827)